L’alba dei cinque eleroth

Cap. I

In un cielo alquanto livido e nebbioso il sole era ormai prossimo al tramonto. La capitale Pline non aveva nulla di monumentale o solenne, ma di solito appariva accogliente come un paesino di campagna abitato da brava gente ospitale. Per questo viaggiatori e mercanti vi si fermavano volentieri, anche se Deresia era un regno secondario. Le basse casette di pietre tondeggianti color ocra, con le piccole finestre in legno e i tetti rivestiti di ardesia grigiastra, le strette strade diritte acciottolate, sempre pulite, i colori dei panni appesi ad asciugare, tutto questo rendeva familiare il paesaggio ed era la bellezza stessa di un regno che, di suo, non godeva di particolare fama, ricchezze o attrattive, ma grazie al clima favorevole e alla saggezza di una dinastia poco ambiziosa era sempre riuscito ad assicurarsi neutralità e quiete e buoni commerci, pur negli scenari più turbolenti.

Eppure quella sera la calma e la serenità tanto famosi, apprezzati e decantati apparivano offuscati dal malinconico tramonto, da quel cielo sporco. Chiunque avrebbe potuto avvertirne il disagio, anche i più superficiali. Le persone superstiziose evocavano strani presagi di sventura. Ma anche i più cinici e concreti, purtroppo, sapevano che quelle erano tutt’altro che favole senza fondamento, e che ogni segnale aveva una ragione, specie gli impercettibili cambiamenti del clima, nell’equilibrio sconvolto dei Regni.

Anche nella taverna, affollata in quell’ora serale, il tempo e l’aspetto del cielo erano l’argomento principale di conversazione. Il locale, dai bassi soffitti a volta, aveva mura in pietra affumicate da innumerevoli giornate di fuoco, nell’ampio camino in fondo alla sala, dotato di ben tre focolari diversi, unica fonte di calore e cucina, intorno a cui si affaccendavano donne e garzoni.

Era una taverna antichissima e molto rinomata, anche se alla buona, tanto che i prezzi erano alla portata di tutte le tasche. Così, l’affollava un’umanità variegata, viaggiatori, giocatori, soldati, mercanti, contadini ripuliti, piccoli funzionari locali, fanciulle e ragazzi dei giardini di eliestra venuti a cercare un po’ di svago, che ridevano senza troppe pretese delle battute salaci che si sentivano continuamente rivolgere. Si notava persino qualche nobile riccamente vestito, interessato alla cucina, attento a non mescolarsi col volgo e circondato da una scorta ossequiosa.

Non era del tutto spiacevole l’odore di cibo, vino e fumo che ristagnava nell’aria, sovrastando quello della varia umanità. E il vociare diffuso non era così caotico da non poter parlare a bassa voce, nei tavoli più appartati.

Così stava facendo un gruppetto di quattro persone, all’apparenza stranieri in Deresia, seduti accanto a una finestra, intorno a un robusto tavolaccio in legno massiccio. Di tanto in tanto fissavano il cielo, oppure, insistentemente, la porta di ingresso, come aspettassero qualcuno, e bisbigliavano fra loro in una lingua che solo i viaggiatori più esperti avrebbero potuto riconoscere come un oscuro dialetto Farni. Eppure, non uno solo di loro aveva l’aria di provenire dalla mitica Farnisia.

Il gruppetto, a dire il vero, non aveva un aspetto molto rassicurante, a cominciare da un uomo maturo, alto e grosso, dai folti baffi scuri, che sembrava esserne il capo. Tutti erano vestiti di cuoio e stoffa spessa, tipico abbigliamento da soldati in viaggio, ma senza insegne di alcuna casata o esercito. Portavano armi alla cintola, spade corte e tozze e pugnali, che non si erano sfilati neppure per sedere sulle panche, nonostante la scomodità che questo doveva comportare. Altro segnale non proprio raccomandabile.

Il capo occupava da solo la panca più larga. Di fronte a lui era seduto un tipo magro sulla trentina, dai capelli sottili, rossastri e slavati, la pelle bianca e i lineamenti aguzzi, che quando parlava aveva l’abitudine di muovere nell’aria le lunghe mani dalle dita ossute, ostentando una strana aria di eleganza del tutto fuori luogo; accanto, un uomo di poco più giovane, scuro di capelli e un po’ stempiato, con occhi di un limpido azzurro. I casi della vita o forse gli eccessi ne avevano duramente provato il fisico e l’aspetto, ma si intuiva ancora una bellezza di ragazzo che doveva essere stata notevole. Parlava poco, sembrava preferire ascoltare e osservare.

Faceva eccezione nel gruppetto il quarto personaggio: una ragazzina, magra e curva come un passero denutrito, che stava seduta, anzi, appollaiata su un basso sgabello, con l’aria di non voler disturbare nessuno. Indossava un ruvido abito a sacco, da serva; i capelli castani erano corti e arruffati, i mobilissimi occhi verdi erano l’unico segno di vita, e parevano seguire nell’aria le tracce delle conversazioni, quasi che a lei fossero visibili come scie di fumo.