Pfumfeldrigg era uno gnomo minatore. Viveva nella vecchia miniera abbandonata, intersecando con i suoi cunicoli quelli che aveva fatto l’uomo, ma non cercava i filoni più ricchi in quantità, bensì quelli della qualità più adatta a ciò che stava facendo. Ora stava cercando il minerale migliore per fabbricare la spada ‘che arriva dritta al cuore’. L’avrebbe poi lasciata a lato di un sentiero a disposizione del cavaliere più degno, di quello che avrebbe superato la prova. A quale prova l’avrebbe sottoposto Pfumfeldrigg non lo sapeva ancora, come non sapeva quale nome avrebbe dato alla spada; perché prima bisogna costruire le cose, e dopo, solo dopo, provvedere al nome e alla prova.

Pfumfeldrigg non era solo minatore, era anche metallurgo; così produsse personalmente il carbone di legna necessario ad estrarre dal minerale il ferro, costruì personalmente l’alto forno, lo accese e sorvegliò che tutto procedesse nel migliore dei modi. Quando il colore giunse al rosso giusto, aprì il foro d’uscita e colò la lava nello stampo ottenendo un perfetto lingotto.

Ora Pfumfeldrigg divenne fabbro e trasformò con il suo sudore, a suon di martellate, il lingotto in lama ed elsa. Poi affrontò la parte più delicata del lavoro: la tempra. Attese la prima eclissi totale di luna, prese un secchio d’acqua dalla fonte Dura, portò la lama all’incandescenza e spiò l’astro guardandolo riflesso nel secchio. La tempra perfetta richiedeva che la lama fosse immersa nell’acqua Dura esattamente quando fosse apparso, sul bordo, il primo, esilissimo, raggio di luce.

Pfumfeldrigg stette molto attento e colse il momento esatto: la spada era al calor giusto, la mira fu perfetta, la lama penetrò l’acqua esattamente dove e mentre appariva il primissimo raggio di luna. L’acqua ribollì e il suo sfrigolio si mescolò al ruggito dei cristalli del ferro che si trasformavano e indurivano in acciaio.

Ma un colpo d’aria mandò a catafascio le cose. Una ventata trasportò alcune pagine, strappate da chissà quale libro e le avvolse attorno alla spada proprio mentre si immergeva nell’acqua di tempra. Così i cristalli e le fibre si avvinghiarono indissolubilmente: il ferro e la carta si unirono in modo inestricabile. E le parole della pagina, come i cristalli del ferro, si riorganizzarono in frasi inconsuete.

“Maledetto Genio” imprecò Pfumfeldrigg. Aveva riconosciuto nella ventata l’impronta inconfondibile di quell’elfo inafferrabile, così veloce da sollevare turbini al suo passaggio, e da consentire all’occhio di vedere solo una gibigianna.

“Maledetto Genio” fece eco una voce rauca e affannata. Proveniva da uno strano essere, comparso all’improvviso presso la fornace di Pfumfeldrigg. Era fatto di libri di carta, rotoli di papiro e pergamene di tutti i formati. Grossi in folio rilegati ne costituivano il tronco, mentre piccoli in ottavo formavano i piedi e pergamene abbastanza robuste gli arti. Minuscoli libricini (in centoventottesimo?) componevano le falangi delle dita. Due penne d’oca a mo’ di baffi sembravano intingersi in una bocca a forma di calamaio, e una grande brossura arruffata, rovesciata a tettuccio sul capo, ne formava la chioma. Era da quella che il vento di Genio aveva staccato le pagine finite nella tempra di Pfumfeldrigg. Altre segnature svolazzavano, in procinto di staccarsi.

“E chi sei tu ?” chiese Pfumfeldrigg

“Sono Biblio, non si vede? Sono il depositario di tutta la saggezza del mondo, e questo dannato elfo mi ha strappato delle pagine, che se non le trovo mi resterà un vuoto in testa per tutta la vita”.

“Sono qui le tue pagine” disse Pfumfeldrigg e gli mostrò la spada inestricabilmente unita ai fogli di carta.

“Oh, che disastro, guarda che confusione! Qui c’era scritto: 'Quando la mia donna saluta, essa appare tanto gentile ed onesta’. E invece adesso si legge: ‘Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta’. Mamma mia che confusione. Qui non si capisce più niente.”

Pfumfeldrigg convenne: “Sì, le parole sono tutte andate fuori di posto, e le righe hanno cambiato lunghezza”.

“E’ vero, non sono più tutte belle giustificate a destra come nei miei libri”, e nel così dire si aprì e sfogliò tutto mostrando l’ordine perfetto delle sue pagine. “Sulla spada invece sono un po’ lunghe e un po’ corte, con degli a capo cervellotici, a metà della frase. Guarda qua: ‘ma sedendo e mirando interminati (a capo) spazi di là da quella, e sovrumani (a capo) silenzi…’. Come si fa a separare con degli a capo gli aggettivi dai loro sostantivi? Che disastro, maledetto geniaccio! Come faremo a rimettere a posto le cose?”

E intanto scuoteva la tesa e si grattava la brossura proprio dove si erano staccate la pagine.

“Se è per quello non è un problema”, rispose Pfumfeldrigg, “basta aspettare che la luna diventi nuova e fare una ricottura del metallo appena prima che inizi il nuovo ciclo. Ferro e carta dovrebbero districarsi. Maledetto geniaccio! Quanto tempo ci fai perdere.”

“Allora aspettiamo” disse Biblio e si sedette a contemplare la spada/pagina, scuotendo la testa alle strane conformazioni che le frasi avevano assunto.

In quella si udirono allegre voci femminili e apparvero nove leggiadre fanciulle agghindate di veli svolazzanti (Genio doveva ancora essere nelle vicinanze). Le prime otto erano allegre e chiacchierine, avanzavano a passo di danza, cantavano e salutavano gioiosamente con le manine. L’ultima era triste e abbattuta e singhiozzava a calde lacrime.

“Che ti succede, che sei così triste mentre le tue sorelle son così allegre?” chiese Pfumfeldrigg.

“Nostro padre ci ha incaricate di portare, ciascuna, un dono agli uomini” rispose la piccola fra un singhiozzo e l’altro. “Le mie sorelle portano la storia, la pantomima, la musica, la danza, la tragedia, la commedia, l’astronomia, e l’epica. Solo io non so cosa portare. Se non trovo un dono per gli uomini non avrò più il coraggio di tornare a casa e migrerò, orfana e derelitta, per l’eternità.”

Una delle sorelle intanto guardava attentamente la spada/carta e le strane frasi che vi erano scritte.

“Ehi, sorella”, disse, “guarda un po’ qua che bello. Sono parole ma hanno il ritmo della mia danza.”

E un’altra: “Come è più bello l’amore descritto così ‘che dà per lì occhi una dolcezza al core / che intender non la può chi non la prova’.”

Biblio inorridì, ma la fanciulla piangente s’illumino’ di colpo e disse:

“Buon gnomo metallurgo, dammi quella spada. Come si chiama?”

“Non ha ancora un nome. Doveva essere la ‘spada che arriva dritta al cuore’, ma adesso …”

“Adesso arriva proprio ‘dritta al cuore’”, rise la fanciulla, “La donerò agli uomini come modo di raccontare l’amore. E lo chiamerò Poesia.”

La prima falce di luna illuminava ora il cielo. Le fanciulle ripresero il loro cammino danzante, finalmente gaie e ridenti tutte. Le loro voci si allontanarono piano piano, perdendosi nella lontananza del bosco.

Anche Genio si era fermato ad osservare la scena ed ora, tutto compiaciuto, esclamò:

“Che magnifica invenzione la poesia. Tutto merito MIO che ho scompigliato i libri”.

“Ma i contenuti ce li ho messi IO, e senza di quelli non sta in piedi nulla”, interloquì Biblio.

E Pfumfeldrigg: “Ma la forma gliel’ho data IO alle frasi! Non la contate? Il merito è MIO”.

Salirono forti di tono le voci di Genio, Pfumfeldrigg e Biblio che altercavano concitatamente:

“No, tu non hai fatto niente, è tutto merito mio”.

“No, è mio.”

“E’ mio.”

“E’ mio.”

“La forma …”

“Lo stile …”

“I contenuti …”

Mi dicono che non hanno ancora finito di altercare adesso.