Dopo il remake del kolossal King Kong (2005), Peter Jackson torna sul grande schermo con una pellicola ispirata a un romanzo: dopo lo straordinario successo del Signore degli Anelli, di J.R.R. Tolkien, è il turno di Amabili resti (The Lovely Bones), di Alice Sebold, di passare nelle mani del cineasta neozelandese. 

Il libro uscì nel 2002; Jackson lo lesse durante la post produzione del Signore degli Anelli e la storia gli piacque tanto da decidere di ricavarne un film. Nel progetto furono coinvolte anche Fran Walsh e Philippa Boyens, co-sceneggiatrici del Signore degli Anelli: entrambe avevano letto e apprezzato il libro, e hanno prodotto la pellicola insieme a Jackson e a Steven Spielberg (produttore esecutivo).

Amabili resti narra la storia di Susie Salmon (Saoirse Ronan), una ragazzina di quattordici anni che conduce una vita perfettamente normale fino al giorno in cui viene assassinata. A macchiarsi del crimine è il vicino e costruttore di case per bambole George Harvey, interpretato da Stanley Tucci. Dall’aldilà Susie continuerà a osservare i suoi cari, guidandoli verso la scoperta dell’autore del crimine e durante il lungo percorso di elaborazione del lutto. Nel cast anche Mark Wahlberg e Rachel Weisz nei panni dei genitori di Susie, e Susan Sarandon, un’improbabile nonna a suo dire trentacinquenne sempre accompagnata da sigarette e alcoolici.

Il buon cast e la regia non riescono da soli a rendere Amabili resti il film perfettamente riuscito che Jackson aveva in mente. Saoirse Ronan riesce a dar prova del suo talento recitativo ma finisce per somigliare, in alcuni passaggi, alla più nota Dakota Fanning; Susan Sarandon è credibile nei panni della nonna dedita all’alcool e al fumo, ma il suo personaggio si limita a dar vita a un paio di scene divertenti (grazie anche all’efficace colonna sonora) per poi eclissarsi nel resto della pellicola; Rachel Weisz risulta particolarmente fuori parte: più che la madre di Susie, ne sembra la sorella maggiore hippy pronta a fuggire in una comunità; il personaggio meglio ricostruito è senza dubbio George Harvey, nei cui panni Stanley Tucci è perfetto e inquietante: l’attore, pur avendo a disposizione pochissime battute, riesce a dar vita a un serial killer che lascia nello spettatore un forte senso di repulsione

Il limbo in cui Susie si trova dopo la sua morte rende molto bene l’idea di un coloratissimo paradiso hippy che in fondo paradiso non è. In questo mondo ideale, che cambia forma e aspetto a seconda dell’umore di Susie, si colgono echi dalla narrativa per ragazzi, dal Piccolo Principe ad Alice in Wonderland. La magnificenza visiva ricorda alcuni paesaggi elfici nel Signore degli Anelli e l’attenzione alla scenografia e alla fotografia ricorda un regista del calibro di Terry Gilliam. Tuttavia l’equilibrio tra mondo terreno e ultraterreno ricercato da Jackson manca nella pellicola, troppo realistica per prendere sul serio le sue attitudini fantastiche; le scene ‘mondane’ sono predominanti e non recano traccia della vena fantastica relegata da Jackson in una parte ridotta della pellicola.

I temi affrontati nel film, come la continua tensione tra vendetta e perdono e l’elaborazione di un lutto, non sempre sono trattati in modo credibile: in particolare la vendetta e il perdono risultano, soprattutto nelle fasi finali del film, ‘schiacciati’ dalle circostanze, lasciando allo spettatore l’impressione che il regista se ne sia dimenticato; inoltre, qui come nel Signore degli Anelli, Jackson opta per un’assurda serie di finali ingannevoli a ripetizione, che rompono il ritmo della pellicola proprio nei momenti di maggior tensione.

Alcuni passaggi risultano dunque forzati e al termine della proiezione ci si chiede a cosa si ha assistito: un ritratto del lato oscuro dell’America di provincia degli anni Settanta, un film sulle diverse reazioni possibili al dolore, un giallo, un film fantastico, oppure niente di tutto questo.