Un romanzetto per ragazzi delizioso, come quelli che si scrivevano una volta e che ora, forse, sono un po’ fuori moda. Ma ben venga chi, nel 2010, riesce ancora a confezionare un volume che possa essere avvincente, educativo, istruttivo e pieno di sentimento come lo sono stati i classici.

I personaggi tratteggiati da Silvana De Mari hanno la freschezza di quelli di Giana Anguissola, e il suo stile ha la disinvoltura e la naturalezza di un Gianni Rodari. A dimostrazione che ciò che interessa soprattutto all’autrice è instaurare un rapporto diretto con chi legge. Per questo, grazie al cielo, la De Mari non lavora ossessivamente col Manualino di Scrittura Creativa Perfettina sul comodino. La De Mari se ne frega delle regole, le infrange e le piega al suo volere, fa fare loro giri tortuosi e divertenti che sfociano comunque là dove sarebbero sfociati se avesse seguito una noiosa linea retta, riuscendo a confezionare ugualmente un libro aggraziato e coerente.

Così, non ha importanza se, prima della storia vera e propria, la scrittrice rivolge al pubblico la propria dichiarazione di intenti con uno spiritoso incipit del tutto slegato dalla trama; né ha importanza che un certo numero di capitoli abbia il medesimo titolo, diversificato solo dallo scandire del tempo sull’orologio; o che qualcuno chiamerebbe clinicamente infodump le informazioni che ci vengono fornite sulla vita pregressa dei personaggi, ma che sono essenziali a penetrare la loro psiche e quindi, a comprendere le loro azioni.

La De Mari, giustamente, di tutto questo si fa beffe. Perché quando la sintassi è impeccabile, quando la forma espressiva è personale e capace di veicolare appieno il messaggio, che importanza ha se la calligrafia esce dal quaderno a quadretti? Alla De Mari, come a chiunque sappia davvero scrivere, i quadretti non servono più, perché la profondità intellettuale ed emotiva con cui intride la sua opera arriva direttamente e con naturalezza al cuore del lettore, instaurando una relazione unica e speciale con esso. E questo è il solo ingrediente che, se manca, rende vano qualunque libro, riducendolo un vuoto esercizio di stile.

Poiché conosce bene la vita, la De Mari sa illuminarne gli aspetti con la giusta luce e se, da un lato, riesce a far sorridere di dolcezza il lettore e a farlo commuovere di struggimento, non rinuncia, quando è necessario, a graffiarlo col ricordo di eventi storici terribili e a tirargli le sassate degli aspetti più crudi dell’esistenza quotidiana, in un intreccio estremamente realistico che presenta più di un piano di lettura a seconda dell’età di chi legge.

I personaggi, anche quelli a prima vista ‘cattivi’, rivelano man mano tutta la loro vulnerabilità, tutto il disagio che li porta a rifarsi, a volte inconsapevolmente, sugli altri. E la dolcissima protagonista, Leila, è una ragazzina capace di vedere le ragioni dietro a questi lati oscuri, così come di toccare i cuori di chi la avvicina e di cambiarne l'esistenza. Tuttavia non si tratta di una mera Pollyanna: accanto al candore di bambina, Leila possiede i tratti pragmatici di chi è cresciuto troppo in fretta a causa della miseria, e deve iniziare prima degli altri a capire che la vita cercherà di sfidare i suoi sogni. Il trucco è quello di conservarli anche quando sembra che la realtà, di consistenza apparentemente tanto più solida, ci innalzi di fronte barriere e nemici. Un trucco che – questa è la critica che si percepisce nei confronti della scuola odierna - persino gli educatori sembrano aver dimenticato.

L’unico piccolo neo del libro fa capolino in un paio di pagine, quelle in cui la De Mari si sofferma sulla pratica odiosa e aberrante dell’infibulazione e sulla persecuzione medioevale delle 'streghe'. Qui, pur affermando cose pienamente condivisibili, la Narratrice lascia il posto al Medico e alla Donna, e il testo finisce così per risultare un po’ cattedratico. In questi punti la storia, altrimenti così bene intessuta di valori profondi ma perfettamente amalgamati nella vicenda, si dissolve e lascia vedere la rete nuda e cruda sottostante all’arazzo.

Ma dov’è l’elemento fantastico in tutto questo? E’ proprio il soprannaturale gatto dagli occhi d’oro, che fa da trait d’union fra il prologo avvenuto sessant’anni prima e la vicenda odierna. Si tratta di un elemento sottile, appena percettibile come appena percettibile è la grande magia della vita agli occhi di chi la sa avvertire. La quale, proprio come un gatto, scivola silenziosa e furtiva da una stanza all’altra dell’esistenza, regalando qua e là una soffice strusciata o delle calde fusa a chi è abbastanza accorto da andarle incontro a cuore aperto. Perché chi è accorto sa che, come dice Charlie Brown e come la De Mari ci ricorda, “la felicità è un cucciolo caldo”.