Cominciamo col leggere un breve estratto della recensione su Fantasy Magazine riguardante il romanzo.

Che a volte la vita sia “una specie di partita a scacchi” è stato affermato parecchio tempo fa dallo scienziato e uomo politico americano Benjamin Franklin. E proprio su una scacchiera la scrittrice di Prato Miki Monticelli ha scelto di ambientare il suo romanzo, nel quale tre ragazzi devono impegnarsi per giocare la partita più importante della loro vita.

L’invenzione di un luogo con lo specifico scopo di costituire il teatro dello scontro tra le forze della Luce e quelle dell’Oscurità ha precedenti illustri, rintracciabili già nei secoli passati quale elemento fondamentale di alcuni culti dualistici. Nel nostro caso la Monticelli, ribaltando l’atto primigenio, spinge un Re degli Uomini e uno Spirito Errante a creare la scacchiera nera per ambientarvi la nona guerra. Lo scopo della creazione diviene la protezione del mondo degli uomini, già devastato dalle otto Guerre Antiche.

Nella struttura del romanzo, però, gli scacchi forniscono poco più del punto di partenza. È grazie a loro che, come con il famoso binario nove e tre quarti, è possibile passare dalla nostra realtà a un’altra, ignota alla maggior parte della gente. Ma a differenza di Harry Potter e dei suoi amici, Ryan, Milla e Morten compiono il viaggio in maniera del tutto involontaria, e non hanno la possibilità di tornare indietro a loro piacimento. Se vogliono lasciare la scacchiera devono giocare, anche se le regole sono tutte da scoprire.

Allora, Miki, leggendo questa recensione mi è subito riaffiorato alla mente il capolavoro cinematografico di Jumanji, interpretato nel ’95 da un eccentrico Robin Williams e diretto da Johnston. A tuo parere, potrebbe esserci una sorta di legame di sottofondo tra il film e La scacchiera nera oppure devono essere considerati come due punti di partenza nettamente distinti?

In realtà a parte la scacchiera e, in linea generale, l’espediente del gioco che fornisce il punto di partenza (una trovata impiegata non solo da me), qui non c’è molto altro che ricordi Jumanji. O almeno… non era nelle mie intenzioni richiamarmi al film. Quello a cui mi piaceva richiamarmi erano invece gli scacchi, che sono un gioco di strategia e di guerra e mi potevano fornire quindi spunti interessanti per un’avventura ‘in armi’. O, per essere esatti, per l’inizio di un’avventura in armi, infatti nel libro non si arriva ad affrontare una vera e propria ‘battaglia finale’ ma si seguono piuttosto i personaggi nella scoperta e nel loro adattamento alla Scacchiera, con i pro e i contro del trovarsi improvvisamente catapultati in un mondo selvaggio, e le possibilità sorprendenti che lì Mort, Ryan e Milla scoprono di avere.

Il ‘gioco’ mi permetteva di creare un collegamento diretto col nostro tempo e di affrontare i tipici spunti del fantastico con la leggerezza di un occhio attuale, mentre la narrazione in prima persona mi ha aiutato a fornire una chiave di lettura un po’ diversa e irriverente. In sostanza, non volevo che fosse un libro che si prendeva troppo sul serio e su questo ho puntato, cercando di renderlo un pregio. Insomma, è stato principalmente un esperimento.

È tutto merito della tua sfrenata fantasia o ci sono alcuni elementi estrapolati dalla realtà?

Se intendi se mi sono ispirata a qualcuno di particolare, no. Ma è ovvio che le caratteristiche dei personaggi sono e devono apparire umane, altrimenti non si riesce a immedesimarsi. Questo non significa però che si debba prendere a modello qualcuno di esistente; nello stesso modo ho cercato di tratteggiare le caratteristiche dell’ambiente in modo abbastanza curato, per dare l’impressione di ‘vedere’ un certo panorama, che non è necessariamente ‘vero’. Questo almeno è stato quello che ho tentato di fare; non è stato semplice anche perché il mondo che i ragazzi si trovano ad attraversare viene sempre visto in soggettiva, attraverso gli occhi di Ryan.

Qual è il personaggio a cui sei più affezionata all'interno del romanzo? Puoi spiegarci il perché?

Domanda difficile. Sono molto affezionata a tutti i personaggi, ma forse mi sento più legata a Ryan. Credo che il perché sia abbastanza banale: dovendo narrare tramite i suoi occhi è più naturale entrare in sintonia con lui; ciò che vede, ciò che sente e che fa un personaggio narrante deve passare attraverso l’autore prima di arrivare alla tastiera del pc; quindi, anche se siamo diversi, siamo in qualche modo legati. È stata la parte più rischiosa e difficile, ma ormai è un po’ come chiacchierare con un vecchio amico.