La terra di Arun è un luogo immaginario e i suoi abitanti, la sua cultura e le sue usanze

somigliano solo in modo casuale ai popoli e alla storia del nostro mondo, con una sola eccezione: l’arte del chearis. Così come viene descritta, sotto alcuni aspetti è simile all’arte marziale giapponese dell’aikido, creata dal Maestro Morihei Uyeshiba. Questa imitazione è voluta, in quanto gli scrittori devono scrivere di ciò che conoscono.

Grata per le conoscenze acquisite, l’autrice desidera ringraziare rispettosamente i suoi maestri.

1

La Rocca di Tornor era in fiamme.

Ryke aveva il volto sporco di fuliggine e i polsi escoriati dagli sforzi compiuti per liberarsi dalle catene; la testa gli doleva, ed era così confuso da non sapere più con certezza cosa avesse visto accadere. Da dove si trovava, disteso al suolo nel cortile interno della Rocca, poteva vedere le colonne di fumo che si levavano dalle mura esterne, là dove i genieri di Col Istor le avevano indebolite fino a farle crollare, e avvertiva anche l’odore di fumo di un incendio vicino a lui: alle sue spalle, nella grande sala, qualcosa era stato dato alle fiamme.

Athor, il signore della Rocca, giaceva morto, la lunga barba coperta dal sangue delle ferite che aveva riportato. Ryke lo aveva visto cadere, e nello stato di confusione indotto dal combattimento, si era aspettato che il castello, la torre e le mura di Tornor oscillassero e cadessero con lui per lo shock… ma non era successo. Le mura erano ancora in piedi, anche se tutti gli uomini della guarnigione di cui Ryke era a capo erano morti:

adesso giacevano fuori dalle mura per la cui difesa avevano perso la vita, e stavano congelando sotto la neve che cadeva indifferente.

A Ryke pareva quasi di vedere le donne del villaggio che, a primavera, sarebbero venute a recuperare i corpi dei mariti e dei figli dal terreno che si andava scongelando.

Stordito, Ryke si raggomitolò sulla pavimentazione di pietra, chiedendosi quanti altri uomini di Tornor fossero ancora vivi, e cosa intendesse fare di loro… di lui… Col Istor.

Si era aspettato di morire con i suoi uomini, e tuttora continuava a temere di essere ucciso da un momento all’altro: non voleva morire, ma gli riusciva difficile trovare la volontà di vivere ancora, adesso che Athor era morto, che l’equilibrio era stato infranto e l’ordine delle cose violato per sempre.

Rabbrividendo, la guancia premuta sulla pietra grezza, si chiese poi se Col Istor lo avesse fatto trascinare fuori e incatenare perché intendeva servirsi di lui per dare un esempio agli altri. Da qualche parte, nel grande cortile quadrato della Rocca, poteva sentire un chiocciare di polli e le voci delle donne che stavano cercando di radunarli. L’inverno era cominciato da un paio di settimane, e lui non si era ancora abituato al freddo; dopo tutto, la seconda fitta nevicata era caduta appena quella notte… no, si corresse, la mente annebbiata, era successo due notti prima…

Fra un brivido e l’altro, si addormentò, svegliandosi poi d’un tratto per via di qualcuno che gli aveva sferrato un calcio in un fianco.

Sollevando lo sguardo, vide incombere su di sé, incorniciata dallo sfondo azzurro cupo del cielo invernale, la figura di Col Istor: aveva capelli e barba neri e un volto meridionale dalla carnagione olivastra incorniciato dall’elmo; indossava una cotta di maglia e portava una lunga spada al fianco.

– Siamo appena riusciti a domare l’incendio – affermò in tono colloquiale, come se stesse parlando con un amico, e non con un nemico sconfitto e incatenato. – Quei pazzi hanno dato fuoco alle cucine, piuttosto che arrendersi – aggiunse, accoccolandosi accanto a Ryke. – Hai

abbastanza caldo? – chiese poi.

– Sei troppo vicino! – avvertì in tono brusco qualcuno, alle spalle di Col Istor.

– Taci – ribatté questi, continuando a esaminare Ryke con occhi scuri e attenti, quasi lui fosse stato una capra destinata a essere macellata. –

Combatti bene – disse quindi. – Non sei ferito seriamente, vero? Nessuna lesione, a parte quella botta sulla testa, che ti ha salvato la vita. Niente

ossa rotte. Sei giovane… e te la sei cavata meglio del tuo signore.

Lentamente, Ryke si sollevò a sedere e prese in considerazione la possibilità di tentare di colpire il condottiero nemico con le catene che gli cingevano i polsi, ma si rese conto che le sue braccia non avevano più abbastanza forza da riuscire a sollevare i pesanti bracciali di ferro.

– Athor è morto – ribatté.

– Non mi riferivo al vecchio – ridacchiò Col Istor. – Parlavo del giovane, del principe.

– Errel? – chiese Ryke, battendo le palpebre per dare sollievo agli occhi che bruciavano a causa del fumo. Non dormiva da due giorni, e la stanchezza gli rallentava i processi mentali. Raccolta una manciata di neve, se la sfregò sulla faccia, cercando intanto di riflettere: Errel, l’unico figlio di Athor era lontano quando Col Istor e i suoi soldati erano apparsi davanti alla Rocca, cinque giorni prima. E siccome non era rientrato, Athor e i suoi comandanti ne avevano dedotto che il giovane dovesse essere al sicuro. Ryke aveva sperato con tutto il cuore che così fosse. – Lui è fuori della tua portata – affermò.

– Ti sbagli, lui è qui fra noi – replicò Col Istor, rialzandosi, poi rivolse un cenno all’uomo che si trovava alle sue spalle e ordinò: – Tiralo su.