Mr. Erikson, grazie della sua disponibilità. La Caduta di Malazan (Il Libro Malazan dei Caduti) è terminato: quel’era lo stato d’animo durante la stesura e cosa ha provato nel finire la saga?  

Era una pressione di cui non mi rendevo conto, anche se quando ho finito il primo libro avevo già degli accordi per farne dieci in tutto, quindi sapevo che l’impegno sarebbe continuato per altri dieci anni.

Quando poi ho finito l’ultimo libro, mi sono sentito completamente svuotato, come se non avessi più nulla da dare e la sensazione è stata stranissima: non ho più scritto nulla per sei settimane, la pausa più lunga che io mi sia mai preso durante la mia carriera di scrittore. 

In quale modo ha influito sulla sua opera  essere archeologo e antropologo? 

Un effetto c’e stato. Ho scritto la saga a quattro mani con un amico ( N.R: Ian Cameron Esslemont) anche lui archeologo e antropologo, e quando abbiamo iniziato a scrivere del mondo Malazan volevamo che fosse coerente, con leggi interne prive di contraddizioni  dal punto di vista dell’evoluzione delle società che avremo trattato. Per noi è stata  rilevante tutta una serie di dettagli,  perché li guardavamo attraverso questa prospettiva: le varie popolazioni erano trattate in maniera logica, secondo quello che avrebbe potuto essere il loro sviluppo in un mondo realmente esistente o esistito. Per esempio, chi viveva sulla costa avrebbe avuto  certi usi e costumi e avrebbe mangiato certe cose.

Avevamo l’impressione che nel Fantasy non si parlasse abbastanza del passaggio del tempo e delle sue conseguenze, quindi volevamo mostrarne l’effetto all’interno delle storie che raccontavamo.  

Il titolo della saga vuole essere una specie di epitaffio ma anche una testimonianza. Il messaggio è "l’evoluzione di un popolo ha sempre un costo elevato" oppure "solo chi cade può risorgere"?

L’ispirazione per il titolo è venuta dal registro dove Napoleone  segnava il nome dei soldati caduti nelle campagne militari. Direi che la seconda interpretazione è quella giusta, ma in senso spirituale e non fisico.  

Anche perché molti dei suoi personaggi sembra che muoiano ma poi ritornano in altre forme, più o meno corporee. 

Infatti, la cosa bella del Fantasy è che ti permette di riportare alcuni personaggi indietro dalla morte, e anche se sono radicalmente cambiati c’è la possibilità di avere di nuovo un contatto con loro. Questa è una cosa che, se vuoi, prende spunto dal desiderio che abbiamo tutti di rivedere chi ci ha lasciato.  

La sua Fantasy è stata definita in molti modi: epica, eroica, storica, militare. Lei ha invece mostrato di apprezzare il termine “postmoderna”. Perché? 

Ho commentato positivamente il termine “postmoderno” quando per la prima volta l’ho visto scritto in una recensione. Ho aspettato anni che fosse usato questo termine per ciò che ho scritto e mi è piaciuto particolarmente perché credo sia vero. “Postmoderno” è collegato al mio background personale, quando seguivo corsi all’università e ho iniziato a scrivere; non è tanto una questione geografica, ma è legato al tipo di letteratura che ho conosciuto in quel periodo. Indica un criterio di approccio al racconto,  un’esplorazione quasi inconscia e involontaria.  Toll the Hounds è il più postmoderno della serie.

Parlando di tecnica di scrittura, lei ha detto che ci sono molti modi  per scrivere una scena, ma uno solo è quello giusto: come ci si rende conto di averlo raggiunto? 

Mi piace questa domanda. Hemingway diceva che un buon scrittore per essere tale deve avere un “rilevatore di merda”, cioè, usando un termine più elegante, deve essere in grado di capire quando qualcosa non funziona. Questo si acquisisce nel tempo, non si ha subito.  

Nei suoi libri, ci sono tantissimi personaggi e nomi: ha usato un criterio particolare o non si   è dato regole specifiche? 

L’unica regola che ho seguito – senza esserne consapevole – era di non prendere nulla dal reale e dalla cultura del nostro mondo. Non c’è nessun corrispettivo fra le nostre società attuali e i nomi che ho trovato per le mie, anche perché nella Fantasy ho visto spesso situazioni in cui se ci sono due religioni in conflitto, tendenzialmente una ha caratteri vicini all’Islam e l’altra ricorda quella dei Crociati: ho cercato di evitarlo.

Circa i personaggi, sono un fan di Charles Dickens e mi è sempre piaciuto quello che lui ha fatto con i propri: nei loro cognomi c’è già la caratterizzazione nel suo complesso.

Ho fatto la stessa cosa, sia per affinità che per  contrasto: se c’è uno alto due metri lo chiamo “Piccolino”. Sempre per i personaggi, alcuni nomi vengono da storie private di persone che hanno combattuto in Vietnam, infatti a molti di loro venivano dati dei soprannomi.

Un’altra scelta è stata di attribuire nomi tanto più alieni quanto più una specie si allontanava dai canoni “umani”.  

In Crack’d Pot Trail tra artisti e pubblico c’è un rapporto singolare: ha mai avuto la sensazione che i fan siano dei divoratori affamati e che in certi casi gli artisti se lo meritino? 

La risposta divertente è che non solo qualche autore  ma tutti ce lo meritiamo prima o poi. Quella più seria è che il rapporto tra fan e artisti è cambiato drasticamente con internet. Alcuni autori sono rimasti eccessivamente arroccati nella loro posizione isolata, altri sono immersi troppo nel rapporto con i fan, cosa che può diventare un problema perché conferisce eccesivo potere ai fan stessi. Non so quale sia la posizione migliore tra le due, ma di sicuro l’interazione è cambiata in modo radicale.  

In Italia il Fantastico in generale e la Fantasy in particolare sono considerati generi escapisti. Questo accade anche in America?

Purtroppo si, la stessa cosa succede anche nel mercato americano, ed è un peccato. Credo che al fantasy sia data meno importanza rispetto alla fantascienza, ad esempio.  

Secondo lei esistono aspetti della realtà che il Fantasy può affrontare, come e forse meglio di altra letteratura?  

La Fantasy ha dalla sua parte il vantaggio enorme di poter raccontare per metafore: questo è uno strumento capace di renderla più interessante del mainstream e differenziarla anche dai suoi sottogeneri come l’ Urban Fantasy, che richiede una  credibilità maggiore nei confronti del reale; nella Fantasy pura non è necessario. Ad esempio, ho usato il fantastico come  metafora  nel terzo libro, Memorie di Ghiaccio, per parlare della depressione post partum, che è raccontata attraverso la magia –  la figlia che si nutre troppo della madre facendola invecchiare precocemente – ma lo stato d’animo è quello della vita reale.  

In che modo lei e Esslemont collaborate alla saga? Vi trovate a un tavolo e giocate le avventure di Cotillon, Trono d’Ombra e gli Arsori di Ponti?

Si, è così. Quando abbiamo iniziato a scrivere fantasy l’unico pubblico a cui pensavamo eravamo noi stessi. Giocavamo con le storie, e questo si collega col discorso che facevamo prima sul postmoderno e l’inconscio, perché esse fanno riferimento a qualcosa di molto personale e interiore. Sapevamo cosa aspettarci l’uno dall’altro e speravamo che altra gente avrebbe apprezzato le storie, ma proprio non potevamo prevederlo.  

La casa editrice Armenia pubblica molti dei suoi romanzi divisi in due volumi, cosa pensa di questa scelta?

Ritengo i miei libri piuttosto difficili da tradurre (e credo siano complicati anche per un lettore inglese): trasporre in un’altra lingua spesso fa lievitare il volume delle pagine e quindi l’editore deve frammentare la storia. Nell’edizione tedesca, alcuni dei miei libri sono stati divisi addirittura in tre parti.

Ci racconta qualcosa delle due nuove trilogie in cantiere? E’ prevista anche l’uscita dell’Encyclopedia Malazica in formato cartaceo?

Sono a metà del primo libro della prima trilogia, che parla delle origini del mondo Malazan a livello mitologico e cosmologico. Ci sono riferimenti alla saga ma è ambientato in un’epoca precedente. Per quanto riguarda l’Enciclopedia ne ho parlato con l’editore, solo che il mio co-autore Esslemont sta scrivendo altri tre libri su questa serie e quindi bisogna aspettare. Ma la risposta è fondamentalmente un sì.