PROLOGO

La donna sedeva su una poltrona dai braccioli squisitamente intagliati da uno degli artisti più rinomati della Galassia. Da anni l’artigiano lavorava quasi esclusivamente pezzi unici appositamente commissionati per il suo piacere personale. Tutti servivano il suo piacere. Tutti. Altrimenti, non avrebbero più servito nessun altro.

La donna sospirò voluttuosamente, portandosi alle labbra ancora una, l’ultima, delle grosse, tumide ciliegie violacee importate dai frutteti di Mayland. Un suono gutturale le sfuggì dalla gola quando i denti perfetti incisero la superficie del frutto e una singola goccia di rubino macchiò le labbra della stessa identica tinta. Dalle massicce porte che conducevano ai suoi quartieri privati venne il suono attutito di passi, qualcuno bussò sul legno.

Gli occhi della donna, sapientemente delineati con polvere di Pietra Nera, si posarono brevemente sulle porte, poi volarono alle ampie finestre che davano sul giardino. Un profumo intenso di gelsomino pervadeva l’aria immobile del crepuscolo.

«Avanti.»

La voce della donna risuonò leggera, appena un sussurro, eppure abbastanza penetrante da avvolgere la stanza con il suo timbro autoritario. Uno stiletto celato dal velluto.

Le porte si spalancarono senza un suono, ammettendo nella stanza la sagoma di un giovane. Lo sguardo della donna si staccò dalla finestra e si posò sul nuovo venuto.

Non un ragazzo, eppure non ancora un uomo, dalle forme snelle, ma privo di qualunque residua pinguedine adolescenziale. Vestito solo di leggere brache di lino bianco, muscoli ben definiti guizzavano nervosi sotto una pelle priva di difetti. Lunghi capelli scuri, dai ricci fitti, ricadevano elastici sulle spalle abbronzate, e penetranti occhi verdi, intensi, brillavano incerti alla luce danzante delle torce appese al muro.

Il giovane sobbalzò nervoso quando le porte si richiusero alle sue spalle con un tonfo, e dovette schiarirsi ripetutamente la voce prima di riuscire a parlare.

«Mia signora Verenith,» riuscì infine ad articolare. Aveva una voce calda, ben impostata dai Maestri della Città Alta. Appoggiò un ginocchio malfermo sul marmo dorato, prostrandosi.

La donna lo osservò a lungo, senza parlare. Poi, lentamente, si levò dal sedile, ogni movimento lento e studiato. Portò una mano bianca al capo e rimosse il fermaglio ingemmato che l’adornava. Una folta, lucida massa di capelli color rame brunito scivolò lungo il collo e fino alla vita ancora sottile, ondeggiando e catturando la luce in riflessi di fuoco. Il giovane trattenne il fiato.

Era splendida, e sebbene già in un’età in cui molte donne avevano dato alla luce più di un figlio, brillava di una bellezza non più acerba, ma proprio per questo più completa.

La fronte ampia, non ancora segnata, sovrastava occhi color oro attenti e spesso calcolatori, contornati da lunghe ciglia scurite ad arte. L’incarnato bianco era appena soffuso dove gli zigomi alti conducevano a una bocca rorida e rossa. Era di statura non elevata e di ossatura fine, cesellata, eppure le sue forme erano voluttuose. Indossava una veste da camera di fine seta gwinthadiana, rossa e oro, chiusa in vita da un nastro lentamente annodato. Sapeva di incarnare ogni fantasia maschile, e in passato aveva usato il suo aspetto per confondere e stordire. E non intendeva rinunciarvi.

Con movenze sinuose, quasi feline, si avvicinò al giovane, che ora sgranava gli occhi, per metà affascinato e per metà intimorito.

«Maestro Baneal ha scelto bene questa volta» mormorò lei, roca. «Hai una bella voce e un bel corpo.» Il ragazzo deglutì. «Qual è il tuo nome?» La donna gli alzò il mento con un dito, permettendogli di tuffare lo sguardo nelle profondità dorate dei suoi occhi.

«E-Eamil, mia Signora» balbettò.

«Eamil.» Un sorriso incurvò le labbra rosse, un sorriso che aveva fatto tremare uomini ben più anziani e ben più potenti. «Il nome del primo leggendario Portatore. Un’eredità pesante da sostenere, non credi, mio giovane Eamil?» La donna lasciò ricadere la mano che per un attimo aveva accarezzato la guancia arrossata del giovane, e si voltò.

«Vieni.»