Capitolo 1

 

“Mummificatore”, pensò l’uomo sogghignando.

Mi piace.

Quanta fantasia hanno.

Sono quarant’anni che mi cercano invano. Non mi prendono e non mi prenderanno mai.

Io so come uccidere. E lo faccio bene. Senza sbavature. Senza ripensamenti.

Per questo mi considerano un mostro.

Hanno analizzato così a fondo i miei comportamenti che ormai sembrano conoscermi molto meglio di quanto io conosca me stesso. Qualcuno, addirittura, si è detto certo che da piccolo sono stato maltrattato.

Se sapessero quanto sono lontani dalla verità…

La mia infanzia è stata bellissima. Ho avuto i genitori migliori che un bambino possa desiderare.

Mio padre con me non ha mai alzato la voce. Non ce n’era bisogno.

All’epoca un ragazzino sapeva come doveva comportarsi. Anche se…

Ricordo perfettamente una sera di tanti anni fa. Eravamo seduti intorno al tavolo per la cena; io non volevo mangiare i cavolini di Bruxelles. Li odiavo. E li odio, ancora. Al solo sentirne l’odore, vengo preso da conati di vomito. Be’ anche quella sera feci il diavolo a quattro, ma i miei non fecero un fiato. Solo, non mi fecero alzare finché non li finii tutti.

Ed era la mattina del giorno seguente. Era così che funzionava.

Se lo raccontassi a quelli della televisione, troverebbero subito un nesso fra i cavolini e i miei “delitti efferati”, come li chiamano.

Ma il nesso non c’è.

Io uccido perché mi piace. Non per i cavolini di Bruxselles.

«Hai visto come piove oggi, nonno? Te l’avevo detto che il tempo non sarebbe migliorato! Per fortuna ho messo il giubbotto con il cappuccio! Lo so, un ombrello sarebbe stato meglio… Ma io odio gli ombrelli, sono da vecchi!».

Seduta a gambe incrociate davanti alla tomba del nonno, Sophie sorrise. La foto sulla lapide l’aveva scelta lei: il nonno aveva appena spento settantaquattro candeline. In quella originale, Sophie gli stava accanto e lo abbracciava, ma nell’ovale di ceramica si vedeva solo lui che rideva con un braccio attorno al collo. Fosse stato per lei la foto l’avrebbe lasciata intera, ma la mamma le aveva detto che non poteva comparire sulla tomba di un morto. Peccato, aveva pensato Sophie, sarebbe stato un modo per rimanere vicini per sempre. Anche se, in fondo, lo erano lo stesso.

Ogni giorno, prima di andare a scuola, Sophie si fermava una mezz’oretta al cimitero di Ober St Veit, uno dei tanti, bellissimi, cimiteri di Vienna.

La tomba di suo nonno Thomas era circondata da quelle di grandi artisti e personaggi importanti. Intorno a lei, c’erano angeli disperati e busti impettiti, tempietti greci, croci e stelle di David.

E sopratturro, c’era un grande silenzio. Motivo in più per apprezzare quel posto: il silenzio assoluto. O la musica a palla. Non conosceva vie di mezzo.

«Sai cosa pensavo? Finalmente hai vinto la tua terribile insonnia!», disse ridendo, mentre la pioggia le scivolava dolcemente sul giubbotto.

Poi, all’improvviso, cambiò argomento. «Sai che la professoressa Meyer non ha voluto correggere il mio compito in classe? Quella strega dice che sono andata fuori tema. Mi ha detto che faccio sempre di testa mia! E che non posso parlare del mondo dei morti se il tema del compito è Dove e come di vedi fra venti anni? Ma io mi chiedo, cosa ne sa lei di dove voglio essere io fra venti anni?».

Sophie fissò assorta la scritta sulla lapide.

Aveva la testa così piena di cose che a volte faticava a mettere ordine tra i pensieri.

Poi, come tornando in sé, riprese quella stramba conversazione. «Vabbe’, lasciamo perdere… Non voglio annoiarti con queste banalità! Sarà meglio che corra a scuola, altrimenti prenderò un’altra nota per l’ennesimo ritardo…».

Poi si ravviò i capelli, si infilò il cappuccio, e lanciò un bacio alla foto del nonno, promettendo di ritornare il giorno successivo. «Domani è sabato, verrò dopo pranzo. Ciao nonnino mio!».

Infine si voltò, si infilò le cuffie dell’iPod nelle orecchie e sparò a tutto volume l’ultima canzone del suo gruppo preferito. i Funeral Destroyers, quattro ragazzi americani che tra i loro fan, oltre a lei, probabilmente annoveravano solo i propri familiari.

E con quel sottofondo si diresse verso l’uscita del cimitero.

Poco più in là, qualcuno la stava osservando.

* * *

Wilfred Gospel era puro spirito da ormai più di centocinquant’anni.

Aveva un viso paffuto, incorniciato da due folte basette, lunghe quasi fino al mento. I capelli erano piuttosto radi e sul naso portava un paio di occhialetti d’oro senza stanghette.

Indossava orgogliosamente un elegante completo di lana marrone, con il panciotto e l’orologio da taschino in bella vista.

Wilfred aveva abbandonato il suo corpo materiale il giorno in cui era stato investito da una carrozza mentre attraversava la meravigliosa piazza di Santo Stefano e da quel momento aveva smesso di essere un onesto orologiaio ed era diventato un fantasma da cimitero a tutti gli effetti.

L’incarico gli era stato affidato non appena aveva messo piede nel regno dei morti. Suo nipote Julius, invece, era stato più fortunato: era morto nel suo letto circondato dall’affetto dei familiari ed era stato nominato “fantasma da seduta spiritica”.

Da ciò che raccontava, Julius si divertiva un mondo a comparire durante quelle riunioni segrete, frequentate da persone così curiose di conoscere l’aldilà.

Sull’argomento i fantasmi dovevano mantenere il più assoluto riserbo.

Dare informazioni circa familiari defunti invece era consentito, a patto che non si eccedesse con i particolari.

A Wilfred, invece, era toccato fare il fantasma in un freddo e desolato cimitero di Vienna.

L’ambiente era tranquillo e il lavoro poco impegnativo. se si escludeva la notte, quando le apparizioni dei fantasmi dovevano essere più “importanti”. Però la morte lo rattristava. Per questo se ne stava in disparte, sul limitare del cimitero, cercando di comparire il meno possibile. Nel corso di più di centocinquant’anni di onorato servizio era stato visto non più di una decina di volte.

La cosa gli era anche costata diversi rimproveri da parte del Comitato Centrale Fantasmatico, che lo aveva redarguito imponendogli almeno due apparizioni all’anno, altrimenti, lo avevano minacciato i superiori, l’avrebbero declassato e trasferito come usciere al Ministero della Concordia, l’istituzione che si occupava di mantenere buone relazioni con il “mondo di sopra”.

A lui, che da giovane si dilettava con il teatro, sarebbe tanto piaciuto essere nominato “fantasma del palcoscenico”.

Si immaginava di solcare di nuovo le assi polverose di un palco, terrorizzando gli spettatori con le sue urla. Ma le suppliche accorate non erano servite a niente, né tantomeno erano servite le lunghissime lettere di protesta.

E così si era dovuto accontentare di quel posto al cimitero, non certo di grande prestigio.

Poi, era arrivata lei. Quella ragazzina che tutti i giorni alle sette e mezzo in punto si presentava al cimitero.

Doveva chiamarsi Sophie: il custode, di cui ormai era diventata amica, aveva usato quel nome per salutarla. Lei non piangeva mai Era sempre allegra e fischiettava strambi motivetti. Poco importava se c’era la nebbia, la pioggia o la neve: lei si metteva seduta davanti alla tomba del nonno e gli raccontava nei minimi dettagli tutto ciò che le era capitato nel corso del giorno precedente.

E poi, Wilfred adorava le magliette striminzite di Sophie, quelle con il teschio arrabbiato o con l’orsacchiotto suicida lo facevano impazzire, E quella con la scritta “You are my problem” la trovava geniale. Ma a incantarlo erano soprattutto i due enormi occhi neri, sempre molto truccati, incorniciati da lucidi capelli corvini su cui spiccava una macchia di colore: erano occhi curiosi che decidevano in pochi minuti se le piacevi oppure no.

Anche quel giorno Wilfred vide Sophie salutare il nonno, lanciargli un bacio nell’aria e allontanarsi canticchiando verso l’uscita. Gli sembrava che a Sophie la morte non facesse paura. Anzi, aveva l’impressione che la divertisse.