Per guadagnarsi da vivere come messaggero a cavallo, soleva dire Aplegatt ai giovani freschi di nomina, ci vogliono due cose: un cervello fino e un culo di ferro.

            Un cervello fino è indispensabile, spiegava Aplegatt ai giovani messaggeri, perché sotto il vestito, nella piatta borsa di pelle fissata al petto, il messaggero porta soltanto notizie di minore importanza, che si possono affidare senza timore alle insidie della carta o della pergamena. Le informazioni davvero importanti, segrete, ricche d’implicazioni, il messaggero deve tenerle in mente e ripeterle al destinatario. Parola per parola, e a volte si tratta di parole non semplici. Difficili da pronunciare e tanto più da ricordare. Per ricordarle, e per non commettere errori nel ripeterle, bisogna avere davvero un cervello fino.

            Quanto al sedere di ferro, be’, ogni messaggero ne sperimenta da solo e in fretta l’utilità, quando deve cavalcare tre giorni e tre notti, percorrere cento o anche duecento miglia sulle vie maestre e talvolta, all’occorrenza, in luoghi impervi. Be’, si capisce, non sta sempre in sella, ogni tanto smonta, si riposa. Perché, se l’uomo ha una grande resistenza, il cavallo ne ha di meno. Tuttavia, quando, dopo essersi riposato, gli tocca salire di nuovo in sella, è come se il sedere urlasse: «Aiuto, mi accoppano!»

            «Ma al giorno d’oggi, signor Aplegatt, chi ha bisogno di messaggeri a cavallo?» si lamentavano di quando in quando i giovani. «Per esempio, nessuno percorre la distanza tra Vengerberg e Wyzima in meno di quattro o cinque giorni, pur in sella al più veloce dei destrieri. E quanto impiega un mago di Vengerberg a trasmettere magicamente una notizia a un suo collega di Wyzima? Mezz’ora o anche meno. Al messaggero può azzopparsi il cavallo. Può cadere vittima dei briganti o degli Scoiattoli, essere fatto a pezzi dai lupi o dai grifoni. E addio messaggero. Invece una notizia trasmessa magicamente arriva sempre, non smarrisce la strada, non giunge in ritardo e non si perde. A cosa servono i messaggeri, visto che i maghi sono ovunque, in ogni corte reale? Ormai, signor Aplegatt, i messaggeri sono inutili.»

            Per qualche tempo, anche Aplegatt aveva creduto di non servire più a nessuno. Aveva trentasei anni, era piccolo ma forte e muscoloso, non aveva paura di lavorare ed era naturalmente dotato di un cervello fino. Avrebbe potuto trovarsi un altro lavoro per mantenere sé e la moglie, mettere da parte qualche soldo per la dote delle due figlie ancora zitelle e continuare ad aiutare quella sposata, il cui marito, un imbranato senza speranza, non riusciva ad avere successo negli affari. Ma Aplegatt non voleva e non riusciva a immaginare un altro lavoro. Era un messaggero reale a cavallo.

            Ed ecco che, di punto in bianco, dopo un lungo periodo di oblio e di mortificante inattività, Aplegatt era tornato a essere utile. Le strade maestre e i sentieri nei boschi avevano ricominciato a rimbombare sotto gli zoccoli. I messaggeri, come ai vecchi tempi, avevano ricominciato a percorrere in lungo e in largo il paese, portando notizie di città in città.

            Aplegatt sapeva perché. Vedeva molte cose, e ancora di più ne sentiva. Da lui ci si aspettava che cancellasse all’istante dalla memoria il contenuto delle notizie trasmesse, che le dimenticasse, in modo da non ricordarle neppure sotto tortura. Ma Aplegatt se le ricordava. E sapeva perché a un tratto i re avessero smesso di comunicare tra loro ricorrendo alla magia e ai maghi. Per questi ultimi, le notizie portate dai messaggeri dovevano rimanere un segreto. A un tratto i re avevano smesso di fidarsi dei maghi, e quindi avevano smesso di affidare loro i propri segreti.

            Quale fosse il motivo dell’improvviso raffreddamento dell’amicizia tra re e maghi, Aplegatt non lo sapeva e non gliene importava granché. A suo parere, sia i re sia i maghi erano creature incomprensibili e dal comportamento imprevedibile, soprattutto quando i tempi si facevano difficili. E che i tempi fossero difficili era impossibile ignorarlo, andando di città in città, di castello in castello, di regno in regno.

            Le strade brulicavano di soldati. A ogni piè sospinto, ci s’imbatteva in colonne di fanteria o cavalleria guidate da comandanti nervosi, preoccupati, bruschi e boriosi, quasi che il destino di tutto il mondo dipendesse solo da loro. Anche le città e i castelli erano pieni di gente armata, vi regnava giorno e notte un andirivieni febbrile. I burgravi e i castellani, di solito invisibili, ora correvano senza posa sulle mura e nei cortili, irosi come vespe prima di un temporale, gridavano, imprecavano, impartivano ordini, distribuivano calci. A qualsiasi ora del giorno e della notte, nelle fortezze e nelle guarnigioni, arrivavano lente colonne di carri stracolmi, incrociando quelli che procedevano nella direzione opposta veloci, agili e vuoti. Sulle strade maestre si depositava la polvere sollevata da mandrie di sfrenati cavalli di tre anni, condotti là direttamente dagli allevamenti. I cavalli giovani, non avvezzi al freno né a un cavaliere armato, approfittavano di quegli ultimi giorni di libertà, procurando una mole di lavoro supplementare agli stallieri e non pochi problemi agli altri viaggiatori.