“Che cosa vuole dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un'altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire che cosa significhi "dire la stessa cosa"” (1)

In questo modo tanti anni fa Umberto Eco apriva il suo saggio Dire quasi la stessa cosa, dedicato alla traduzione e alle sue problematiche.

Una buona parte delle opere che leggiamo sono tradotte da un'altra lingua, e perché il lettore le possa apprezzare al meglio è necessario che la traduzione sia fatta bene. Ma quando una traduzione è fatta bene? Come sappiamo tutti la traduzione letterale del significato delle parole non è sufficiente, e basta fare una prova con Google translator per vedere quali goffaggini si possano ottenere se ci si ferma alla superficie del testo.

Eco proseguiva l'introduzione evidenziando come se in un romanzo inglese si trova l'espressione it's raining cats and dogs tradurla piovono gatti e cani sarebbe sciocco, e bisognerebbe optare per un piove a catinelle o per un'altra espressione simile. Se però l'opera fosse un romanzo di fantascienza in cui davvero piovono cani e gatti il testo andrebbe tradotto letteralmente, ma potrebbero esistere situazioni ancor più complicate.

“Ma se il personaggio stesse andando dal dottor Freud per raccontargli che soffre di una curiosa ossessione verso cani e gatti, da cui si sente minacciato persino quando piove? Si tradurrebbe ancora letteralmente, ma si sarebbe perduta la sfumatura che quell'Uomo dei Gatti è ossessionato anche dalle frasi idiomatiche. E se in un romanzo italiano chi dice che stanno piovendo cani e gatti fosse uno studente della Berlitz, che non riesce a sottrarsi alla tentazione di ornare il suo discorso con anglicismi penosi? Traducendo letteralmente, l'ignaro lettore italiano non capirebbe che quello sta usando un anglicismo. E se poi quel romanzo italiano dovesse essere tradotto in inglese, come si renderebbe questo vezzo anglicizzante? Si dovrebbe cambiare nazionalità al personaggio e farlo diventare un inglese con vezzi italianizzanti, o un operaio londinese che ostenta senza successo un accento oxoniense? Sarebbe una licenza insopportabile. E se it's raining cats and dogs lo dicesse, in inglese, un personaggio di un romanzo francese? Come si tradurrebbe in inglese? Vedete come è diffìcile dire quale sia la cosa che un testo vuole trasmettere, e come trasmetterla.” (2)

Eco ha usato un esempio paradossale, ma il significato è chiaro: quando si traduce un testo da una lingua a un'altra è impossibile dire nella lingua di arrivo esattamente la stessa cosa che era stata detta nella lingua di partenza. Lo ricorda anche Ilaria Katerinov quando afferma che “la traduzione non è una scienza esatta: molto spesso le decisioni sono dettate semplicemente dal gusto personale. Ogni scelta traduttiva è un compromesso tra “lettera” e “senso” del testo, e quindi non è mai esente da rischi. Ogni frase tradotta è, in un certo senso, una “scommessa” sul significato che l'autore ha inteso fornire al testo.” (3)

Sapendo questo, il problema diventa capire quanto possa essere grande la differenza fra i due testi senza che quello di partenza possa dirsi tradito.

Una delle traduzioni che negli ultimi anni è stata maggiormente contestata dai lettori di fantasy è quella delle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin, effettuata in gran parte da Sergio Altieri. L'elemento scatenante della polemica è un animale.

La scena, descritta nel primo capitolo del Trono di spade, in sé è abbastanza semplice. Un gruppo di cavalieri appartenenti a Casa Stark sta tornando alla dimora di famiglia quando si imbatte in un animale morto, una meta-lupa. Lord Stark, sulla cui impresa araldica campeggia proprio un meta-lupo, si chiede il motivo del decesso e, visto che la causa sembra essere un oggetto che le è rimasto impigliato in gola, controlla personalmente. Ciò che trova è “il rostro mutilato di un unicorno, la punta spezzata, frantumata, ancora imbrattata di sangue.

Sul gruppo dei cavalieri scese il silenzio. I loro sguardi rimasero fissi sul rostro. Nessuno osò aprire bocca. Bran percepì la loro paura, anche se non ne capì la causa” (4).

La scena è narrata dal punto di vista di Bran, un bambino di sette anni. Bran non può non conoscere lo stemma di famiglia, ma non capisce la causa della paura che attraversa tutto il gruppo. È vero che trovare il proprio animale araldico morto può essere un chiaro presagio negativo anche per qualcuno così giovane, ma a leggere bene la scena si vede che la paura è legata non al ritrovamento della meta-lupa ma alla causa della sua morte.

In italiano la scena non è molto chiara, non si capisce perché il corno di un unicorno debba fare quest'effetto. Le cose cambiano nella versione originale, nella quale Martin, come ogni volta che parla di quel corno, usa la parola antler. E L'antler non è un corno qualsiasi ma un palco di corna di cervo. Come il lettore scopre a breve il cervo è l’animale araldico di Casa Baratheon, la casa a cui appartiene il sovrano dei Sette Regni.

Il presagio viene rimarcato in altre due occasioni da Catelyn, quando la donna associa angosciosamente il viaggio di Robert Baratheon al Nord alla meta-lupa morta (5) e quando ammonisce Ned dicendogli “Tu conosci un uomo che non esiste più” (6) nel vano tentativo di trasmettergli almeno parte della sua inquietudine.