Nella sontuosa cornice di velluti rossi e fregi d’oro della Royal Albert Hall, mercoledì 22 settembre abbiamo assistito a un concerto che, per i fan di J.R.R. Tolkien accorsi a Londra da tutta Europa, resterà certamente nella storia.

Con in mano i biglietti acquistati ormai da quasi sei mesi, verso le 18.30 – orario indicato come apertura ufficiale delle porte della sala concerti – ci siamo avvicinati al nostro ingresso con fare circospetto. Infatti, anche se l’evento era stato ampiamente pubblicizzato sulla stampa britannica e su Internet, in tutta Londra non si vedeva neppure un poster, né una brochure, nulla, vuoto pneumatico. Neppure all’ingresso della Royal Albert Hall. Reprimendo la sottile angoscia che cresceva, sussurrando “Avete sbagliato giorno” e “Hanno cancellato il concerto e voi non lo sapevate”, abbiamo porto i nostri biglietti al tipo all’ingresso e quello ci ha fatto accomodare, informandoci che la sala non era ancora aperta ma che potevamo farci un giro nei corridoi e magari bere qualcosa ai molti bar distribuiti nei diversi piani.

Ancora trepidanti per lo scampato pericolo, ci siamo arrampicati fino al Circle – sì, la piccionaia insomma – e abbiamo iniziato a incontrare altra gente. Soprattutto inglesi. Vestiti male. E noi che ci eravamo fatti un sacco di problemi su cosa metterci per non fare brutta figura, andando perfino a controllare se per la serata fosse previsto un “dress code” particolare!

Dopo aver scambiato un migliaio di SMS con alcuni amici che dovevano raggiungerci in teatro, allo scadere dell’ora X ci siamo precipitati nel sancta sanctorum, la sala. I nostri posti, scelti su una mappina monodimensionale in Flash, sono risultati molto buoni: intendiamoci, sapevamo di averli scelti frontali, ma non credevamo che in piccionaia si potesse vedere così bene. Anche in questo la Royal Albert Hall mostra quanto gli inglesi ci tengano allo showbusiness dal vivo, già dai tempi del buon William Shakespeare. Ci sediamo che la sala è ancora semivuota e manca solo mezz’ora alle sette e mezzo, ora segnata sul programma come inizio del concerto. Qualcuno, vicino a me, afferma che sicuramente si inizierà in ritardo, ma alle 7:29 viene smentito dalle luci che si abbassano davanti a un teatro tutto esaurito.

La London Philharmonic Orchestra si dispone velocemente nel settore della pianta circolare davanti a noi: non c’è una fossa per l’orchestra stasera. Il palcoscenico è tutto per loro, sono loro oggi le star, insieme a tutto il coro: le London Voices e le voci bianche della London Oratory School “Schola Cantorum”, che prendono posto sul fondo. In tutto più di duecento persone.

L’emozione in sala cresce in un mormorio scandito da centinaia di flash delle macchine fotografiche, sparse un po’ dappertutto nonostante l’esplicito divieto. Quando tutto è pronto, accolto da una sapiente regia di luci quasi da concerto rock, finalmente entra Howard Shore, compositore e – per questa sera – meraviglioso direttore d’orchestra.

Silenzio in sala: che la musica abbia inizio.

Sulle note di “The Prophecy”, il maxischermo che sovrasta l’orchestra si accende sulla mappa della Terra di Mezzo, scivolando verso Hobbiton e la Contea. Riconosciamo le illustrazioni e gli storyboard realizzati da Alan Lee e John Howe per la trilogia cinematografica: scorrono sul maxischermo commentando e contestualizzando i diversi passaggi dei sei movimenti della sinfonia, che si snoda lentamente da un film all’altro, da un personaggio all’altro.

Un momento del concerto
Un momento del concerto

Come sempre ascoltare dal vivo una sinfonia che ben si conosce è un’esperienza quasi magica, e in questo caso la prima mezz’ora di esecuzione è stata da pelle d’oca.

I canti elfici eseguiti magistralmente dalle voci femminili, dolci e misteriose, i cupi e gutturali cori dei nani nella sequenza The Bridge of Khazad Dûm, le voci bianche dei bambini – con una superba voce solista – che scandiscono le note della canzone di The Breaking of the Fellowship ci hanno trasportato in un battito di ciglia dentro la storia che amiamo e conosciamo così bene.

Dopo il primo intervallo, alla fine del secondo movimento, Shore è rientrato in compagnia della cantante scandinava Sissel, che ha interpretato The Gollum Song e, ovviamente, Into the West. La sua voce pura e spontanea era molto diversa da quella della Torrini e ancor più da Annie Lennox, ma ha saputo ugualmente regalare al pubblico che non cerca il pelo nell’uovo qualcosa di indimenticabile. Al termine del concerto, dopo quasi due ore di musica, il pubblico ha tributato a Shore e a tutti i musicisti presenti uno scrosciante applauso con standing ovation, che è andato avanti per cinque minuti buoni. Ma non è bastato perché ci fosse concesso un bis: Shore ha ringraziato il pubblico, la bella Sissel, l’orchestra e il coro e ha lasciato il palcoscenico, deludendo un po’ le nostre aspettative. Insomma, un bis lo concede anche Muti alla Scala... E anche l’attesa (breve, lo ammettiamo) davanti alla Stage Door fuori dal teatro, in compagnia di una piccola folla e qualche fan in tenuta elfica, si è rivelata infruttuosa: il macchinone parcheggiato lì vicino non era di Shore, ma solo di un qualche ricco signore arabo fanatico del Signore degli Anelli.

Alla fine di una serata così magica, pur ammettendo di non essere veri esperti di musica, possiamo dire che The Lord of the Rings Symphony ci è sembrata magnifica e il fatto che fosse eseguita dal vivo l’ha resa, alle nostre orecchie di profani, di gran lunga più emozionante e vibrante della versione registrata per i film di Peter Jackson. Speriamo che la fama di questa grande opera, che riesce a coniugare in modo straordinario la tradizione della musica classica al gusto moderno per il cinema, continui a crescere e che magari, durante uno dei prossimi tour in giro per il mondo, Howard Shore decida di fare anche una serata al Teatro alla Scala.