1 - La fine.

Logen si lanciò fra gli alberi a piedi nudi, slittando sulla terra intrisa d’acqua, sul fango e sugli aghi di pino bagnati, con il respiro che gli raspava in petto e il sangue che gli pulsava forte nella testa. Inciampò e cadde su un fianco così bruscamente che per poco non si squarciò il petto con la lama della sua ascia. Poi giacque là con il respiro pesante a scrutare la foresta oscura. Mastino era stato con lui fino a un momento prima, ne era sicuro, ma ora era scomparso. Quanto agli altri, non aveva idea di dove fossero. Bel capo che era, a separarsi dai suoi uomini in quel modo. Avrebbe dovuto cercare di tornare indietro, ma gli Shanka lo circondavano. Poteva sentirli muoversi fra gli alberi, il loro puzzo gli aveva invaso le narici. Gli parve di udire delle urla da qualche parte alla sua sinistra, forse grida di lotta. Logen si tirò lentamente in piedi, cercando di non fare rumore. Un ramoscello si spezzò e lui si voltò di scatto. Una lancia gli veniva incontro rapida, e crudele come lo Shanka che la impugnava. «Merda», disse Logen. Si buttò da una parte, ma  scivolò e cadde con la faccia nel fango. Allora si rotolò travolgendo la vegetazione del sottobosco, sicuro che la lancia gli si sarebbe conficcata nella schiena da un momento all’altro. Ansimante, riuscì a rialzarsi in tempo per vedere la punta lucente della lancia che stava per infilzarlo, la schivò scartando verso un grosso tronco d’albero dietro cui si riparò. Si sporse un poco per sbirciare e il Testapiatta era lì che sibilava, già pronto a infilzarlo. Logen s’affacciò per un istante dall’altro lato, si ritrasse e poi con un balzo girò attorno all’albero e calò l’ascia, ruggendo più forte che poteva. Si udì uno scricchiolio quando la lama affondò in profondità nel cranio dello Shanka. Che fortuna aveva avuto, ma d’altra parte Logen pensava che la fortuna fosse in debito con lui. Il Testapiatta se ne stava là, a fissarlo stordito, quindi cominciò a oscillare da una parte all’altra, con il sangue che gli colava lungo la faccia. Alla fine crollò come un masso, strappando l’ascia dalle mani di Logen, e rimase ai suoi piedi a contorcersi. Logen cercò di afferrare l’impugnatura della sua arma, ma lo Shanka era chissà come riuscito a non mollare la presa sulla propria lancia, la cui punta ora si agitava in aria. «Ah!», strillò Logen quando la lancia gli penetrò nel braccio, e subito dopo vide un’ombra calargli sul viso. Era un altro Testapiatta, uno dannatamente grosso, già a mezz’aria con le braccia aperte. Non c’era tempo per recuperare l’ascia, né per togliersi di mezzo. Logen aprì la bocca, ma non c’era tempo neanche per emettere un fiato. E comunque, cosa mai si potrebbe dire in una situazione del genere? Si schiantarono insieme sul suolo umido, si rotolarono nel groviglio di fango, spine e rami spezzati; si artigliarono, si presero a pugni, ringhiarono l’uno contro l’altro. La testa di Logen colpì la radice di un albero con una violenza tale da fargli fischiare le orecchie. Aveva un coltello da qualche parte, ma non ricordava dove. Seguitarono a rotolare e rotolare lungo un pendio, il mondo continuava a ribaltarsi su se stesso, mentre Logen cercava di riaversi e allo stesso tempo di strangolare il grosso Testapiatta. Non c’era modo di fermarsi. Gli era sembrata un’idea astuta quella di accamparsi vicino alla gola, perché in questo modo nessuno avrebbe potuto coglierli di sorpresa alle spalle. Ora che Logen era scivolato sul torace oltre l’orlo del precipizio, l’idea aveva perso gran parte del suo fascino. Le sue mani cercarono un appiglio sulla terra bagnata, ma si riempirono solo di fango e aghi di pino secchi. Le sue dita si chiudevano per aggrapparsi però al nulla. Stava per precipitare. Si lasciò scappare un gemito. Le sue mani afferrarono qualcosa: la radice di un albero che spuntava dalla terra proprio sull’orlo del burrone. Logen rimase a dondolare sul vuoto, senza fiato, ma la sua presa era salda. «Ah!», esultò. «Ah!» Era ancora vivo. Ci voleva più di qualche Testapiatta per far fuori Logen Novedita. Fece per  issarsi sul ciglio del burrone, ma non ci riuscì, perché un gran peso lo tirava verso il basso. Così guardò giù. La gola era profonda, molto profonda, con pareti ripide e rocciose. Qua e là, qualche albero s’era ancorato a una fenditura ed era cresciuto sul vuoto dispiegando la chioma sul nulla. Il fiume sul fondo del crepaccio scorreva rapido e impetuoso, ribollente di schiuma bianca che si insinuava tra frastagliate rocce nere. E questo non era certo un bene, ma al momento Logen aveva un problema decisamente più impellente, non essendosi ancora sbarazzato del grosso Shanka che dondolava piano avanti e indietro con le manacce luride serrate attorno alla sua caviglia sinistra. «Merda», mormorò Logen. Si trovava proprio in un bel guaio. Ne aveva passate tante, sì, ed era sempre sopravvissuto per cantarne le canzoni, ma era difficile che potesse andare peggio di così. La situazione lo fece riflettere sulla propria vita, che ora gli sembrava amara e inutile. Non aveva migliorato l’esistenza di nessun altro e nella sua, fra la violenza e il dolore, c’erano state solo delusioni e difficoltà. Le sue mani si stavano stancando, gli avambracci gli bruciavano, ma il grosso Testapiatta non sembrava avere alcuna intenzione di lasciarsi andare, anzi, si era persino arrampicato un po’ lungo la sua gamba prima di fermarsi e fissarlo in modo truce. Se fosse stato Logen a stare aggrappato alla gamba dello Shanka, molto probabilmente avrebbe pensato: La mia vita dipende da questa gamba a cui sono appeso, quindi è meglio non correre rischi. Un uomo preferisce salvarsi piuttosto che uccidere un nemico. Il guaio era che lo Shanka non la pensava allo stesso modo, e Logen lo sapeva. Così non fu poi troppo sorpreso quando il Testapiatta aprì la grossa bocca e gli affondò i denti nel polpaccio. «Aaaah!», grugnì lui. Poi si mise a urlare e tirare calci con il tallone nudo imprimendogli tutta la forza che aveva, tanto da riuscire ad aprire uno squarcio insanguinato sulla testa dello Shanka. Quello però non la smetteva di mordere, e più Logen scalciava, più le sue mani scivolavano sulla radice viscida a cui era appeso. Ormai non gliene rimaneva che una spanna scarsa e anche quella pareva sul punto di spezzarsi. Cercò di concentrarsi ignorando il dolore alle mani e alle braccia, i denti che il Testapiatta affondava sempre di più nella sua gamba. Sarebbe precipitato. L’unica scelta che aveva, e che praticamente si compì da sola, era cadere sulle rocce o cadere in acqua. Quando si deve fare qualcosa, tanto vale farla piuttosto che vivere nel terrore dell’attesa. Questo era ciò che avrebbe detto suo padre. Così, Logen piantò saldamente i piedi sulla parete rocciosa, prese un ultimo, profondo respiro e si lanciò nel vuoto con tutta la forza che gli era rimasta. Sentì la morsa dei denti aprirsi, e poi allentarsi la presa delle mani. Per un breve istante Logen fu libero. Fu allora che cominciò a cadere in picchiata. Le pareti della gola gli scorrevano rapide davanti agli occhi, prima la roccia grigia, poi il muschio verde e le chiazze di neve candida, tutto si mescolava in un unico guazzabuglio. Logen si rivoltò lentamente in aria, con gambe e braccia che si dimenavano senza controllo spinte dall’attrito, troppo spaventato persino per gridare. Il vento impetuoso gli frustava gli occhi, gli tirava i vestiti, gli mozzava il respiro. Vide il grosso Shanka colpire la roccia sotto di lui, spezzarsi e rimbalzare molle esattamente come un cadavere. Fu una visione piacevole, ma la sua soddisfazione ebbe vita breve. Precipitò in acqua sul fianco, e fu come se un toro lo avesse caricato svuotandogli tutta l’aria dai polmoni. Privo di sensi, Logen fu risucchiato verso il fondo nella fredda oscurità…