Parte Prima 

Arhark haoy’Hamàt. 

In ogni cosa un dio. 

Miyaran tal’kaharàn, 

Nella luce che splende 

un Khama ona y’é. 

in tutto ciò che esiste. 

Kaàl knodè mahàn, 

Nel vento che sussurra 

un Shunà pelidé. 

sull’acqua silente. 

Onam ay’garhàt 

Nella vita che arde 

un Demòi y’edara’hé. 

nell’oscurità che attende.

"Filastrocca di Reallach" 

Prologo 

Il rituale del Khama 

Sesta era – 980° ciclo 

Il cratere si spalancava sulla cima del monte come la gola di un demone 

famelico. Attorno a esso, intagliata nel sogno del mondo da pensieri antichi 

quanto il creato, si ergeva la muraglia di biogranito dell’Architettura: una sagoma imponente e nera come l’abisso, simile a un occhio rivolto al multiforme frattale del cielo. 

Creata all’inizio dei tempi, quando il mondo aveva assunto la sua configurazione attuale, la possente mole dell’edificio affondava fino al nucleo stesso dell’esistenza e i suoi bastioni parevano inghiottire il chiarore del giorno eterno che illuminava la volta celeste. Le sue alte mura s’innalzavano alla base di una colonna di vento e luce che legava i processi del cielo e quelli della terra.

Un vortice perenne, simile a un albero i cui rami erano una sottile ragnatela luminosa e le cui fronde erano vaste nuvole di polvere che mulinavano senza posa: un immane ciclone, le cui propaggini ospitavano infinite repliche di se stesso e la cui rotazione scandiva i cicli che misuravano il trascorrere del tempo; tanto vasto che ai suoi piedi luce e oscurità si rincorrevano, sommergendo il mondo in una tinta surreale, disegnando fragili e spettrali giochi d’ombra. I Sacerdoti di Reallach lo chiamavano l’Albero della vita. 

Al di sotto delle sue fronde Belaren si strinse impaurita nel proprio mantello, scosso dalla furia dei venti, cercando di nascondervi tutti i suoi dieci cicli. La rossa veste e i lunghi capelli ramati della madre, che procedeva sicura davanti a lei, erano invece immobili. Belaren si chiese se anche lei sarebbe stata in grado, in un futuro lontano, di evocare il volere degli dèi come gli altri Interpreti. 

Attorno a loro, lugubri sagome di pietra cominciarono a rivelarsi tra le rocce: figure confuse tra le balze e il suolo, dal quale affioravano simili a grottesche statue di uomini, animali e creature che Belaren non aveva mai visto. Volti angosciati e labbra tese, agonizzanti. Ammutoliti nell’ultimo pentimento della carne, prigionieri di urla e movimenti remoti. Ogni loro 

fibra tremava d’orrore e la giovane ne ebbe paura. 

– Madre, chi sono? 

– I morti eterni – spiegò la donna, fermandosi e voltandosi verso di lei. 

– Creature punite per aver cercato di penetrare i recessi dell’Architettura: gli 

dèi della pietra si sono scavati una via nella loro carne, imprigionandoli per 

sempre. - Mentre parlava i suoi occhi, verdi come i boschi di Reallach, brillarono d’una venatura infuocata, e il tatuaggio simile a un terzo occhio, che 

portava sulla fronte e che le affondava nella neocorteccia, parve risplendere 

di luce propria. Belaren fu scossa da quel lucore che aumentava sempre più 

a mano a mano che si avvicinavano all’Architettura: Miyaran era bellissima 

e fiera. – Anime che agonizzeranno in eterno in un tempo congelato. 

– Ma, cosa vedono? 

– Le loro paure e i loro desideri. 

– È… è crudele. Sono stati davvero gli dèi della pietra? 

La donna annuì, severa: – Gli dèi proteggono l’Architettura, Belaren. Quelle persone sapevano i rischi a cui andavano incontro quando hanno cercato la verità senza averne il permesso. E per questo sono state punite. 

– Ma se lo sapevano... perché? È una follia! 

– Il confine può essere molto sottile, Belaren. E tra loro non ci sono soltanto folli, ma anche grandi studiosi ed eroi di Reallach e Moraiach... e persone che abbiamo amato. Ma il loro desiderio di sapere era troppo grande per le loro forze. 

Vi era una nota di rimpianto nella sua voce. Una malinconia profonda. 

– Ora andiamo – concluse Miyaran, esortandola a rimettersi in marcia prima che avesse il tempo di chiedere qualsiasi altra cosa. 

Morti eterni: cercatori di una verità che non erano predestinati a raggiungere, ma alla quale avevano agognato nonostante tutto. Belaren ebbe paura di quei volti che la ignoravano, concentrati nella disperazione del proprio inferno personale, e cercò di distoglierne lo sguardo; ma fu inutile: in preda al panico prese ad arricciarsi i lunghi capelli biondi con le dita

La sola idea della propria coscienza prigioniera in eterno le faceva tremare le ossa. Al 

loro posto, lei... 

Rabbrividì e raggiunse la madre. Ne strinse la veste. 

Per fortuna erano quasi arrivate all’Architettura: davanti all’imponente muraglia le aspettavano tre figure, avvolte in mantelli di diverso colore. 

Due di loro Belaren non le aveva mai viste: la prima era un uomo alto e robusto, vestito di nero, come i capelli che gli sfioravano le spalle. Aveva un volto forte su cui spiccavano due occhi rossi: innesti biomeccanici di ottima fattura, di quelli che solo i più ricchi tecnoidi di Reallach potevano permettersi. L’altra invece era una sagoma dal viso amorfo e bianco come 

l’abito che indossava; un volto assente, simile a una maschera di vetro liscia che inquietò Belaren non poco. In quella creatura non vi era nulla di familiare, se non una vaga forma femminile: doveva trattarsi di un’Eterea, una creatura figlia del vento e della luce, esponente di una razza schiva e antica. Si diceva tra le prime create dagli dèi.

Osservò quel volto traslucido e vi si vide riflessa; ma fu qualcosa di più profondo del semplice specchiarsi: era come guardare dentro se stessi, e vi vide incertezza, timore e curiosità. 

Distolse lo sguardo spaventata e, per rassicurarsi, lo posò sull’ultimo membro del gruppo: un sorriso spontaneo le crebbe tra le labbra. Ghan era il più importante dei Custodi di Reallach, ed era stato il suo maestro fin da quando sua madre l’aveva consacrata al Clan per il suo talento di Interprete. 

L’uomo indossava un lungo saio marrone e una folta barba del medesimo colore gli fuoriusciva dal cappuccio. Aveva occhi castani, screziati da ombre grigie e nere. Era una persona gentile; ed era anche lui un puro, proprio come Belaren e sua madre: in lui non c’erano innesti visibili, né macroscopici, né mesoscopici. Soprattutto, era umano. 

– Benvenute – le accolse il Custode, sorridendo. 

Gli altri le salutarono con un lieve cenno del capo. 

Belaren ricambiò con un leggero inchino, poi guardò Ghan e sua madre, cercando in loro la sicurezza che non riusciva proprio a trovare: l’immensa mole dell’Architettura, ora come non mai, svettava infatti su di loro e, senza alcuna soluzione di continuità, si propagava fino all’orizzonte. Sopra di essa l’Albero della vita danzava incessante. 

– È gigantesca – mormorò colpita da quella maestosa solennità. Sua madre le posò una mano sulla spalla. 

– L’Architettura è la struttura più antica del mondo, Belaren, e l’Albero della vita è l’intelaiatura di tutto ciò che esiste. 

– Si potrebbe dire – intervenne Ghan, – che l’Architettura sia il mondo stesso: le sue radici affondano fino al nucleo dell’esistenza e ogni processo della realtà converge o deriva da lei: come l’Albero della vita e l’Origine dei venti – concluse indicando l’immenso e inesorabile vortice che ruotava in cima alla montagna. 

Una voce anodina risuonò nella mente della giovane.

– La sua creazione risale all’epoca in cui i daimoni assunsero la configurazione attuale, strutturando uno schema d’esistenza autonoma e imprimendolo nella rete sincretica dell’Architettura. Essa è il pilastro che regge il mondo intero: al suo interno sono custoditi i codici più antichi e la singolarità che ha dato inizio a ogni cosa e dalla quale i daimoni ci proteggono. 

Appena Belaren comprese chi le aveva parlato rivolse alla strana donna senza volto uno sguardo attonito. Dunque era davvero un’Eterea: nella sua mente doveva essere racchiusa una comprensione del mondo scevra dai normali vincoli della carne. 

– I daimoni? – chiese perplessa. 

– Voi esseri umani li chiamate dèi. 

– Ma... 

– Jehinn, non farle confusione – la ammonì Ghan con un sorriso divertito. Poi si rivolse alla bambina: 

– Nomi diversi per culture diverse, ma alla base la stessa idea. 

– Una semplificazione impropria. 

Sua madre li interruppe: – Ghan, Jehinn, andiamo, l’Architettura mi sta chiamando con intensità sempre maggiore. Il Khama si sta avvicinando. 

Ed era vero, perché istante dopo istante Miyaran si faceva sempre più bella e altera: i suoi lineamenti trasfiguravano, gli occhi le si coloravano di un bagliore intenso come la vita e dal tatuaggio sulla fronte promanava una strana luminescenza. 

Il Custode annuì, s’avvicinò all’immensa muraglia di biogranito e l’attraversò come se non avesse sostanza. Jehinn e l’uomo vestito di nero lo imitarono senza indugi e i loro corpi vennero inghiottiti, come se avessero oltrepassato un velo di nebbia che si era richiuso alle loro spalle con un debole risucchio. Belaren rimase per un istante interdetta, poi la madre la sospinse verso la parete.