Il nome di Daniel Pennac può sembrare una garanzia di divertimento ironico e intelligente. Il film tratto da Il paradiso degli Orchi, invece, si rivela noioso e scontato, permeato da un’amarezza grottesca a cui neanche Fantozzi ci ha abituato. 

A metà fra commedia e giallo, il film, tratto dal primo libro della saga di Pennac, narra la storia di Benjamin Malaussène, che di professione fa il capro espiatorio nei grandi magazzini di Parigi. Il suo lavoro consiste nell’accollarsi tutte le invettive del responsabile Ufficio Reclami per impietosire e imbarazzare i clienti, smuovendo in loro una solidarietà umana, al punto da costringerli a ritirare denunce e rimostranze, pur di far cessare quella mortificazione pubblica. Di contorno la sua improbabile famiglia di una tristezza e uno squallore pari a Cuore di Edmondo De Amicis. Quando ai grandi magazzini succedono attentati, come l’esplosione di una bomba che causa anche un morto, il capro espiatorio è sospettato di essere l’artefice. Entra in scena una giornalista smaliziata e indipendente, Bérénice Bejo, il cui aiuto sarà fondamentale per scoprire il colpevole. È scontato dire che fra la giornalista e il capro espiatorio scoppi l’amore.

Personaggi grotteschi, parodiati, riprendono l’atmosfera ormai stantia del Favoloso Mondo di Amélie, rendendo ancora più amaro il film che non lascia molte speranze. Ad addolcire il tutto una Parigi laccata, piena di colori. Le scenografie quasi pop, kitsch, tentano di costruire un mondo ai limiti della serie televisiva giovanilistica, privandoci però di quella demenziale freschezza che spegne i cervelli. 

Nulla si può dire agli attori che sono bravi, qualcosa forse si dovrebbe consigliare al regista, Nicolas Bary le cui scelte virano verso una finzione color Big Babol alquanto appiccicosa.