L’uomo che aveva impartito l’ordine si girò verso il cadavere dalla gola squarciata quindi guardò la ragazza. «Ha seni e fianchi di donna sotto lo straccio che indossa!»

«È saltata addosso a Min e gli ha rotto il collo usando le cosce! Quale donna può fare questo, Yarikh? È un demone, ecco cos’è!» insisté Attis.

«Forse è nata da una leonessa» s’intromise un altro superstite, quello che Pasht aveva aggredito per primo. Si teneva una mano sulla faccia dilaniata e insanguinata, così che la voce giungeva soffocata. «Forse è una dea…»

«Sciocchezze!» fece Yarikh.

Si avvicinò alla fanciulla, squadrandola da capo a piedi. «Io penso che lei creda di essere una gatta. È così, vero?» sibilò a pochi centimetri dalla bocca insanguinata di lei. «Sei una gatta selvaggia?»

Pasht cercò di azzannargli la faccia ma quello si ritrasse in tempo.

«Miiia!»

Yarikh si raddrizzò. «Cosa hai detto?»

«Miiiaaa!»

La sua barba tinta di porpora, decorata con perline di vetro, fu scossa dalle risa. «Ha detto “miao”»

«Ha detto “mia”» lo corresse quello ferito. Trasalì. «La dea-gatta ci ha parlato!»

«Sei uno sciocco superstizioso, Bol» fece Yarikh.

Bol lo ignorò e si avvicinò un pochino a Pasht che cercava, invano, di divincolarsi dalla stretta di Attis.

«Che cosa è tuo, dea-gatta?» domandò.

Pasht fissò intensamente i sacchi pieni di mummie di gatti, poi lui. «Miiiia! Ffffamiiiiglia!»

«Crede che queste mummie siano la sua famiglia!» sghignazzò Attis.

«Allora non è una dea né una leonessa: è soltanto pazza» stabilì Yarikh.

«Portiamola con noi, potremmo venderla» propose Attis.

«Chi pagherebbe per una  schiava che crede di essere un gatto? No. È meglio ucciderla e lasciarla qui, con la sua famiglia» disse Yarikh, grattandosi la barba acconciata alla maniera fenicia.

«Ffffamigliaaa!» urlò Pasht, disperata.

«Forse potremmo lasciarle qualche mummia…»

«Questa miniera di gatti morti ci frutterà più oro di quanto ne faremmo vendendo spezie e conchiglie per tutta la vita. Niente da fare, Bol!» lo interruppe Yarikh, brusco.

Bol distolse lo sguardo dalla creatura urlante e raccattò le borse che, nella furia della lotta, avevano rovesciato il loro prezioso contenuto.

«Tornate alla nave. Io vi raggiungerò in tempo per salpare con la marea della notte.»

«Sei sicuro di farcela da solo?» volle sapere Attis che, nonostante la mole, aveva il suo bel daffare a tenerla ferma.

Yarikh sbuffò. «È riuscita a sopraffarci solo perché ci ha colti alla sprovvista. Ne ho tirati un sacco di colli. Donne o gatti: non fa differenza.»

Le mollò un manrovescio che la strappò dalla presa del gigante, mandandola a terra. Le si inginocchiò sulla schiena per impedirle i movimenti quindi le legò i polsi usando la corda con cui teneva la tunica chiusa in vita.

Attis ridacchiò. Scavalcò i cadaveri di Marqo e Min, raccolse la sua parte di refurtiva e si avviò.

Bol riconobbe lo sguardo negli occhi di Yarikh. «Sai, le persone che vivono su questa sponda del Nilo hanno un detto: “Non si accarezza la gatta Bastet prima di aver affrontato la leonessa Sekhmet”.»

Se ne andò.

«Sei convinta di essere una gatta…» disse fra sé Yarikh, non appena rimase solo con lei.

Yarikh torreggiava sulla ragazza. Passò una mano sulla schiena che si arcuava sotto di lui, tastando la muscolatura tonica. L’ocra veniva via mentre la toccava, lasciando scie e chiazze di pelle scura nei punti in cui le grosse mani la esploravano. Le davano un aspetto maculato.

«Miiiaaaa!» piangeva lei. «Fffamiiiglia! Ffffamiglia!»

Le schiacciò la faccia a terra, costringendola a divaricare le gambe. «…ti prenderò come fanno i gatti.»

Le separò le natiche.

«Ffffamigliaaaaa!»

Yarikh udì uno gnaulio furibondo alle proprie spalle, si voltò e qualcosa lo colpì in faccia. Cadde sul pavimento rotolando per togliersi di dosso i felini inferociti che gli azzannavano la gola. Il sangue schizzava in tutte le direzioni. Afferrò le pellicce dei gatti con le dita bagnate ma più tirava e più essi strappavano via la carne. Emise un rantolo e restò immobile.

Pasht sentì dei denti grattarle i polsi e recidere la corda. Una delle sue sorelle le si strusciò contro la faccia, asciugandole le lacrime col folto pelo. La confortò con le sue fusa.

La sua famiglia la circondò, le code dritte e gonfie di rabbia.

Pasht saltò in piedi e corse fuori dalla grotta, seguita dal suo branco.

Bol sapeva di essere sopravvissuto per poter raccontare quanto aveva visto.

Aveva visto una donna nuda e un branco di felini balzare sul ponte della nave che aveva appena mollato gli ormeggi.

La sua sagoma sospesa in aria contro il sole morente si era deformata e allungata, assumendo l’aspetto di un gigantesco felino. Aveva udito i suoi laceranti ruggiti di rabbia. Poi non era più stato sicuro di niente. Ma era sicuro che non fosse stato un incubo. Il sangue che lo circondava e lo ricopriva era rosso e scuro e vero. Era appiccicoso.

Gli era sembrato che zanne e artigli si riversassero dal cielo, divenuto marrone come durante le tempeste di sabbia, punteggiato dai balenii di occhi che piovevano intorno a lui come gialle stelle infuriate.

I suoi compagni avevano urlato mentre venivano mutilati e squarciati. Puzzavano di paura mentre morivano.

Era fuggito inciampando su arti mozzati e teste rotolanti e si era aggrappato alla balaustra sfregiata per rimettersi in piedi e correre sulle assi scivolose.

Il cielo, la terra, il fiume, il legno scricchiolante del vascello erano tutti dello stesso colore. Il paesaggio si era trasformato in una bolla color fango rosso, e pareva capovolgersi e dondolare e affondare nel Nilo denso e viscoso.

Bol aveva appena raggiunto la riva a nuoto quando la donna era riemersa, a poca distanza da lui. Gli aveva mostrato i denti insanguinati in una specie di sorriso. Poi era corsa via insieme al suo branco.

Almeno, sembrava una donna. Ma Bol sapeva che era una gatta e anche una leonessa. Era la Dea.