Cenerentola inizia e gli spettatori si trovano sbalzati dentro la Casa nella prateria. La macchina da presa inquadra un bel prato e una bambina, ovviamente bionda, che corre (ricordava tanto l’inizio di Saving Mr Banks). Le immagini, create ad hoc, regalano una scioglievolezza simile a quella dei cioccolatini pieni di burro e conservanti. 

La famiglia appare in tutto il suo splendore, con Ella, la futura Cenerentola, e la mamma, Hayley Atwell, inspiegabilmente candidata al Golden Globe, disegnate come novelle Barbie uscite dalla fabbrica della Mattel. Ben Chaplin, lontano da ogni capacità attoriale, cosparge il mondo romance con pasta di zucchero, aumentando il tasso glicemico degli spettatori. 

Ben presto l’idillio finisce e ci si ritrova catapultati in relazioni che strizzano l’occhio a Tim Burton e a tutto il cinema volutamente esagerato, da Tano da morire a Gran Budapest Hotel, privato della forza dissacrante di quei film. 

Dante Ferretti firma le scenografie, moltiplicando il suo Ego in un tripudio di oggetti - notevoli i tappeti, i mobili, i vasi - forse eccessivo. Sembra che la famiglia di origine di Ella abbia voluto riempire i vuoti di una relazione perfetta e di facciata. Ha ragione la matrigna a essere sdegnata da tutto l’ammasso confusionario della casa.

I costumi di Sandy Powell spaziano nel tempo: dalla vestaglia animalier (un omaggio a Krizia?), ai vestiti che sembrano ispirati a Sonia Delaunay, indossati dalla brava ed esagerata, al limite della macchietta, Cate Blanchett, la matrigna, l’unica però convincente; dagli abiti usciti dalle illustrazioni di Cenerentola, ai vestiti provenzali della mamma di Ella; dagli abiti delle sorellastre anni ’50, ai vestiti principeschi con lustrini e passamanerie. Ci mancava l’abito bianco della principessa Leila e si poteva pensare a una mostra del costume nel tempo.

Tantissimi gli stridor di denti in una storia che dovrebbe appassionare anche gli adulti. Ci si aspetta solo il pianto (degli spettatori) per la disperazione, a cominciare dalle prime scene, quando il padre di Ella, Ben Chaplin, mostro non certo di bravura, utilizza, per i suoi documenti, quella che sembra una penna roller. Nel 1830? Con le carrozze? Se avessero voluto fare una Cenerentola steampunk nulla ostava, ma conditio sine qua non è la coerenza. 

Stupisce come con cotanta cura e fasto non si sia insegnato al principe il baciamano corretto. Richard Madden - il Robb Stark di  Il Trono di spade, attore per fortuna eliminato nel rispetto della storia originale di Martin - si produce in una visibile spalmata di labbra sulla mano di Cenerentola, tale da rendere consigliabile la raccolta di informazioni sull’igiene dentale del medesimo, o la fornitura a Lily James di una bottiglietta di Amuchina per un’immediata detersione. 

Passiamo alla percezione del tempo. Nel cartone animato c’è una proporzione fra i rintocchi della mezzanotte, quelli che costringono Cenerentola a scappare prima che tutto svanisca. Nel film invece Ella sente i primi rintocchi, decide di scappare da una sorta di giardino segreto –mischiare le fiabe fa molto intellettuale evidentemente-, il principe la lascia andare basito e immobilizzato da un eccesso di movimenti neuronali. Poi comprende e decide di rincorrerla. In questo frattempo i rintocchi sono diradati. Ella ha il tempo di: sbagliare strada, incontrare il re, complimentarsi per il figlio tanto gentile e tanto onesto, uscire dal palazzo, trovare la carrozza e scappare inseguita dalle guardie e dal Granduca, Stellan Skarsgård. A questo punto i rintocchi si ravvicinano. Ma siamo nel mondo delle fiabe! Tutto può accadere, soprattutto se si è gentili.  

Per non parlare del ritorno a casa della matrigna e delle sorellastre, che entrano dalla cucina, ordinando un tè sorbito nel medesimo luogo. Ma quando mai una signora entra a casa dalla cucina? Per di più con gli abiti buoni? E beve il tè in cucina allo stesso tavolo di quella che considera la cameriera e che ha cacciato dal tavolo da pranzo? 

E Cenerentola, che, giunta a Palazzo Reale, non sapendo la strada per arrivare al salone, spalanca  la porta di un palco? Non aveva capito che quella doppia porta a primo piano fosse un palco? Fa molto esibizione del Dr Frank-N-Furter nell’interpretazione di Sweet Transvestite. Nel cartone animato, in modo coerente al carattere schivo della protagonista, questa entra a palazzo e si aggira per i corridoi adiacenti alla sala del ballo, sarà il principe a riconoscerla e a raggiungerla, non si presenta certo in pompa magna, è guardinga e non vuole dare nell’occhio.

In ultimo l’atteggiamento politically correct fastidiosissimo, che impone di mettere a capitano delle guardie un uomo di colore, il bravo Nonso Anozie, imponente e simpaticone, che parteggia, neanche a dirlo, per il principe. Dovevano dare le quote alla comunità nera? Dovevano passarsi la mano sulla coscienza? E allora perché dare quella parte? Un contentino? Così hanno rispettato le minoranze. A questo punto potevano fare Cenerentola cinese, o egiziana.

Stendo un piumone pietoso, o anche una gettata di cemento, sulle cantatelle (obbligatorie, me ne rendo conto). 

L’interpretazione di Derek Jacobi, il re malato, è melensa e sembra l’ombra di ciò che fu, qualora qualcuno lo considerasse un valido attore cinematografico.

La madrina Helena Bonham Carter è presa tal quale da La Fabbrica di cioccolato, o da uno dei film di Burton, travestita e pronta per il set.

La regia di Kenneth Branagh: commerciale e funzionale a tenere in piedi tale carrozzone.

Infine il messaggio centrale - messo in bocca alla madre di Ella: “Dove c’è gentilezza, c’è bontà e dove c’è bontà, c’è magia”- sembra invitare la bambina a subire le angherie, piuttosto che a vivere in armonia con gli altri senza perdere il rispetto di sé. 

Cenerentola nel film sembra, ancor più che nel cartone animato, una poveretta maltrattata, che la vita travolge, in bene e in male, incapace di gestire una vita propria. Un po’ come dire alle fanciulle: “Aspettate il marito ricco. Forse arriverà”. 

O si è coerenti con la storia originaria, rispettando i tempi e la mentalità dell’epoca, oppure ci si prende le libertà del caso cercando, allora, di essere adeguati al periodo in cui le opere sono prodotte e fruite.