Anna viene mandata dalla mamma adottiva a Hokkaido, da alcuni zii, nella convinzione che quell’ambiente possa giovare alla bambina non solo dal punto di vista fisico. Qui Anna, piena di risentimenti e sofferenze soprattutto interiori, profondamente autodistruttive, riuscirà a risolvere i propri tormenti attraverso un’avventura singolare e quanto più inaspettata.

La storia di Anna racconta uno dei drammi più diffusi tra i bambini di tutto il mondo e di tutti i tempi, quello del vivere male la propria condizione di orfani e poi adottati, con i tanti diversi disagi che a volte ne conseguono.

Il percorso di Anna è però magicamente fortunato, perché senza saperlo torna nei “luoghi del cuore” e lì vivrà un’avventura che la scuoterà dal profondo, e la porterà, non senza sofferenze, a crescere.

Questo ultimo film dello Studio Ghibli (per ora solo dal punto di vista cronologico), ispirato all’omonimo romanzo inglese di Joan G. Robinson del 1967, è profondo, intenso, ma di non immediato apprezzamento, forse a causa di sinossi precedentemente diffuse che potrebbero aver confuso le idee, soprattutto a chi non conosce il libro. Lo spettatore, però, potrebbe essere portato a ripensarci a lungo, e di certo ne rivaluterà la visione dando a Hiromasa Yonebayashi i giusti meriti.

Quando c’era Marnie è sì una ghost story in piena regola, ma che unita alla delicatezza nipponica di una grafica semplice e brillante ricrea un ambiente tipicamente inglese dello scorso secolo e riesce a inserirlo nel Giappone forse contemporaneo, forse di cinquant’anni fa, poco importa. Uno degli aspetti che più colpiscono è che si tratta di una pellicola senza tempo, comunque attualissima, in grado di avvicinare spettatori di tutte le età fatta esclusione per bambini troppo piccoli. Non è certo una storia leggera come Totoro.

Quando c’era Marnie non è un capolavoro, e probabilmente non buca lo schermo come può aver fatto un racconto visionario come Il castello errante di Howl, ma forse è anche ingiusto fare di questi confronti. Si tratta di un film intenso e toccante, profondamente emotivo, che raggiunge i sentimenti prima del gradimento artistico. Di certo parlerà al cuore di un adolescente che stia cercando il proprio posto nel mondo, che senta vivi in sé i piccoli grandi disagi del crescere, con forte il desiderio di serenità e debba imparare a essere il proprio primo amico; nella storia di Anna troverà l'invito a guardare bene dentro e accanto a sé, perché spesso nel proprio passato o nelle persone più vicine, che siano legate da parentela o da affetto sincero, si trovano piccole luci con cui illuminare il proprio percorso di crescita.

Dal punto di vista tecnico Quando c’era Marnie non si discosta dal mondo dello Studio Ghibli e questa è quasi una certezza per lo spettatore appassionato: paradossalmente si apprezza Yonebayashi quanto Takahata e Miyazaki senior o junior, grazie a un intenso gioco di fotografia e sequenze di immagini di un mondo che tanto ci affascina quanto è diverso da quello occidentale, ma che sempre riesce a farsi amare e a donare qualcosa, se non dal punto di vista dei contenuti (certo è che le varie anime dello Studio Ghibli si rifanno a esperienze e messaggi molto diversi tra loro e questo è un bene!) certamente dal lato artistico.

La colonna sonora di Takatsugu Muramatsu forse non è ai livelli di Hisaishi, ma è intensa e ben si armonizza con la storia e lo scorrere delle immagini, di certo come in ogni Ghibli che si rispetti grande spazio viene fatto anche ad altri due importanti protagonisti: il silenzio e la Natura. Ben si fa notare Priscilla Ahn che ha scritto e cantato il main theme, Fine on the outside.

Per quanto riguarda l’adattamento italiano Cannarsi sa sempre mantenersi fedele a scelte molto rigide, che talvolta lasceranno lo spettatore un po’ interdetto al punto di fraintendere, come mi è capitato di leggere o sentirmi domandare, a causa di scelte di traduzione precise ma ambigue. Pur capendo “perché”, continuo a sostenere che non sia la strada più vincente per avvicinare un pubblico tanto ampio a questo ambiente che, invece, ha tanto da donare a un pubblico occidentale, ma al tempo stesso propongo allo spettatore di andare e giudicare personalmente.