Dicevano che Deadshot dopo il tramonto appartenesse solo a chi aveva cattive intenzioni. Io, di cattive, non ne avevo. Ma nemmeno di buone, se è perquesto.

Mi lasciai scivolare giù dalla sella di Blu e la legai a un palo dietro una bettola chiamata Polveriera. Un ragazzino seduto contro la staccionata mi scrutava con aria sospettosa. O forse era solo per via di quegli occhi neri che si ritrovava. Riemergendo dal cortile, mi calzai bene in testa il cappello a tesa larga. L’avevo rubato a mio zio, così come il cavallo. Preso in prestito, diciamo. Insomma, tutto quello che avevo apparteneva a lui, secondo la legge, perfino i vestiti che indossavo.

Le porte della bettola si spalancarono rovesciando fuori una luce accecante, un gran baccano e un ubriacone col braccio stretto attorno a una bella ragazza. D’istinto portai la mano allo sheema che mi avvolgeva: mi si vedevano solo gli occhi tanto ero imbacuccata, e persino ore dopo il tramonto conti­ nuavo a sudare come una peccatrice in preghiera. Forse sem­ bravo più un nomade sperduto che un tiratore esperto. A me bastava non sembrare una ragazza. Quella notte me ne sarei andata da lì con le mie gambe. Meglio ancora se con qualche moneta in tasca.

Dal punto in cui ero si vedeva bene l’arena dei pistoleri, dall’altro lato di Deadshot. Era l’edificio più rumoroso della città, e ce ne voleva da quelle parti. Era un vecchio fienile, mas­siccio e malridotto, in fondo a una strada polverosa, brulicante di corpi e illuminato a giorno, appoggiato contro una chiesa mezza crollata, con un paio di assi di legno inchiodate alla porta. Forse una volta apparteneva a un onesto commerciante di cavalli, ma doveva essere successo molto tempo prima, a giudicare dalle condizioni.

La calca aumentava man mano che mi avvicinavo, come un nugolo di avvoltoi attorno a una carcassa ancora calda.

Un uomo col naso sanguinante era tenuto inchiodato alla parete da altri due, mentre un terzo lo colpiva con pugni su pugni in faccia. Da una finestra, una ragazza gridava parole che avrebbero fatto arrossire l’ultimo dei fabbri. Un gruppo di operai ancora in uniforme si stringeva intorno a un nomade a bordo di un carro scalcinato, che berciava di avere in vendita sangue di Djinni, capace di esaudire tutti i desideri di qualunque uomo onesto. Il suo ampio sorriso emanava un che di disperato nella luce oleosa della lampada, e non c’era da stupirsi: erano anni che da quelle parti non si vedeva un Primo Essere in carne e ossa, figurarsi un Djinni. Povero ingenuo! Ogni abitante del deserto sa che i Djinni sanguinano solo fuoco puro, e a Dead­ shot non ci si illude certo di essere scambiati per gente onesta. Tutti nell’Ultima Contea hanno frequentato il tempio quanto basta per avere ben chiare entrambe le cose.

Mi sforzai di continuare a guardare dritto davanti a me, come se tutto questo non mi fosse nuovo.

Se mi fossi arrampicata su uno degli edifici più alti avrei potuto scorgere Dustwalk, casa mia, oltre la distesa di sabbia e rovi, anche se non ci sarebbe stato granché da vedere, solo case scure. Dustwalk si alzava e si coricava col sole. L’onestà e le buone intenzioni non appartengono alle ore più buie della notte. Se fosse possibile morire di noia, a Dustwalk saremmo già tutti cadaveri.

Deadshot invece scoppiava di vita.

Nessuno fece molto caso a me quando entrai nel fienile. C’era già una bella folla. File di enormi lampade a olio pendevano dalle travi del soffitto, accendendo i volti di quegli ebeti di un bagliore lucido e untuoso. Alcuni bambini smagriti stavano sistemando i bersagli e nel frattempo cercavano di evitare le sberle di un energumeno che urlava loro di sbrigarsi. Orfani, a giudicare dall’aspetto. Con ogni probabilità i loro padri avevano lavorato nelle fabbriche di armi ai margini di Dustwalk, fino al giorno in cui qualche macchinario difettoso non li aveva fatti a pezzi. O si erano presentati al lavoro troppo ubriachi, finendo per ustionarsi a morte. Capitava spesso. Maneggiare polvere da sparo non era esattamente tra le attività più sicure al mondo.

Ero così concentrata che per poco non finii addosso al gigante che stava alla porta. «Davanti o dietro?» domandò, una mano posata casualmente su una scimitarra al fianco sinistro e l’altra su una pistola al fianco destro.

«Come?» Mi ricordai giusto in tempo di fare la voce profonda. Per tutta la settimana mi ero esercitata imitando il mio amico Tamid, ma sembravo più un ragazzo che un uomo. Al buttafuori, però, non pareva importare molto.

«Sono tre fouza per assistere da dietro, cinque per stare da­ vanti. Le scommesse aprono alle dieci.»

«Quant’è per stare in mezzo?» Da almeno un anno zia Far­ rah cercava di imporre un po’ di disciplina alla mia linguaccia, ma a quanto pareva senza successo. Immaginai che sarebbe stato più doloroso se ci avesse provato quel tizio.

Invece mi guardò con le sopracciglia aggrottate come se fossi demente. «Davanti o dietro? Non c’è mezzo, ragazzo.»

«Non sono qui per assistere» precisai prima di dire qualcosa di cui mi sarei pentita.

«Io sono venuto per sparare.»

«Perché mi fai sprecare tempo, allora? Devi parlare con Ha­san.»

Mi spinse verso un uomo imponente con i pantaloni di un rosso acceso, la barba lunga sul mento e sporca. Stava dietro un tavolo pieno di soldi, e mentre tamburellava sul legno con le dita faceva vibrare le monete.

Trassi un respiro profondo attraverso lo sheema e mi sforzai di non apparire troppo spaventata, anche se sentivo un nodo allo stomaco.

«Quanto per entrare?»

Hasan aveva una cicatrice sul labbro che gli dava un’espressione strana, come un ghigno perenne.

«Cinquanta fouza

Cinquanta? Era praticamente tutto quello che avevo in tasca. Tutto quello che ero riuscita a risparmiare negli ultimi anni per scappare a Izman, la capitale del Miraji. Per fuggire il più lontano possibile.

Nonostante fossi coperta dal naso in giù, Hasan parve cogliere la mia esitazione, immaginando che fossi tentata di andarmene.

Fu questo a farmi decidere. Lasciai cadere il denaro sul ta­ volo, in un mucchietto di louzi e mezzi louzi che avevo messo scrupolosamente da parte negli ultimi tre anni. Zia Farrah dice­ va sempre che non mi tiravo mai indietro quando c’era da fare una stupidaggine, anche solo per provare a qualcun altro che si sbagliava. A conti fatti, forse zia Farrah non aveva tutti i torti. Hasan mi lanciò un’altra occhiata diffidente ma, una volta contate le monete con la rapidità di un ladro professionista, non poté negare che ci fosse tutto. Solo per un attimo provai una

bella soddisfazione.

Spinse verso di me un pezzo di legno che penzolava da una collana di corda. Sopra, in nero, c’era impresso il numero venti­sette.

«Quanta pratica hai con la pistola, Ventisette?» mi chiese Hasan mentre mi infilavo la collana al collo. Il pezzo di legno mi rimbalzò sul seno, appiattito dalle bende in cui l’avevo avvolto.

«Un po’» risposi vaga. Mancava tutto a Dustwalk, e nell’inte­ ra Ultima Contea, in realtà. Cibo. Acqua. Vestiti. Solo due cose avevamo in abbondanza: sabbia e pistole.

Hasan soffocò una risata. «Allora saprai che è meglio se non ti tremano le mani.»

Entrai nell’arena premendomi i palmi contro le cosce. Se non fossi riuscita a tenere ben salda la pistola, il fatto di aver impa­ rato prima a prendere la mira che a leggere mi sarebbe servito a ben poco. Presi posizione sulla striscia di sabbia, dietro a un uomo che pareva tutto ossa sotto la tuta da operaio consunta. Accanto a me venne a sistemarsi un altro tizio con un ventotto che penzolava dal collo taurino.

La gente iniziò ad accalcarsi sugli spalti. Gli uomini che raccoglievano le puntate urlavano numeri e quote. Mai e poi mai avrei scommesso su di me. Nessuno che avesse un minimo di sale in zucca avrebbe puntato del denaro su un ragazzino smilzo che non aveva nemmeno il coraggio di abbassare lo sheema e mostrarsi in volto. Magari avrei potuto far vincere due soldi a un ubriacone mezzo pazzo, dimostrando che spesso chi ha sale in zucca sta dalla parte sbagliata.

«Buonasera, signori!» La voce di Hasan si levò sopra la folla, mettendola a tacere. Decine di bambini correvano in mezzo a noi, porgendo le pistole. Fu una bambina con le trecce e i pie­ di scalzi a consegnarmi la mia. Il peso dell’arma mi fu subito di conforto. Aprii velocemente il tamburo; c’erano sei proiet­tili. «Conoscete tutti le regole. E fareste bene a tenerle a mente o che Iddio mi sia testimone se non verrò a spaccarvi quelle facce da furfanti.» Nel locale ci fu un tripudio di risa e grida d’approvazione. Giravano già parecchie bottiglie e gli uomini ci guardavano indicandoci come faceva mio zio quando andava alle fiere per comprare cavalli. «Dunque, sei colpi, sei bottiglie. Se ne resta anche solo una in piedi, siete fuori. I primi dieci si mettano in riga.»

Noi restammo immobili mentre i primi si sistemavano ai loro posti, le punte degli stivali dietro una linea bianca tracciata nella polvere. A occhio, tra loro e le bottiglie c’erano circa tre metri e mezzo.

Roba da mocciosi.

Eppure in due riuscirono a mancare il bersaglio al primo colpo. Alla fine solo metà di loro centrò tutte le bottiglie.

Uno era grosso il doppio di tutti gli altri partecipanti. Indossava quella che un tempo doveva essere stata un’uniforme militare, ma era troppo malconcia perché potessi dire con cer­tezza se il suo colore in origine fosse stato quello tipico bianco e oro dell’esercito, o se avesse semplicemente assunto le tonalità della sabbia del deserto. Sul pezzo di legno che aveva intorno al collo si leggeva il numero uno, scritto in grande e ripassato più volte. Tutti lo acclamavano. Alcuni stavano urlando «Dahmad! Dahmad è il campione!», quando lui si girò e afferrò uno dei bambini che gli sfrecciavano accanto per andare a raccogliere i cocci di bottiglia. Non riuscii a sentire cosa gli dicesse prima di spingerlo via. Il piccolo tornò poco dopo con una bottiglia di liquore bruno. Dahmad bevve avidamente, rilassato contro le sbarre che dividevano l’arena dagli spalti. Non sarebbe rimasto campione tanto a lungo, se si fosse scolato tutta la bottiglia.

Il gruppo seguente era ancora più scarso, e solo uno riuscì a portare a segno tutti i colpi. Mentre i perdenti si allontanavano, potei vedere chiaramente in faccia il vincitore. Non so cosa mi aspettassi, ma quel ragazzo era esattamente l’opposto. Non era delle nostre parti, nessun dubbio al riguardo, e fu la prima cosa che notai. La gente qui era tutta del posto, solo un matto sarebbe venuto di sua volontà nell’Ultima Contea.

Era giovane, forse appena più grande di me, e vestito alla no­ stra maniera: portava uno sheema verde legato morbidamente intorno al collo e una tenuta da deserto talmente larga che era impossibile capire se fosse robusto come sembrava. Aveva ca­pelli neri come un qualsiasi altro ragazzo del Miraji; persino la carnagione scura avrebbe potuto trarre in inganno. Ma no, non era uno di noi. Aveva lineamenti stranamente taglienti, come non ne avevo mai visti, gli zigomi alti, la mascella pronunciata e due sopracciglia scure che incorniciavano occhi misteriosi. Nel complesso, era piuttosto attraente. Alcuni degli uomini sconfitti sputarono ai suoi piedi. Il giovane straniero sollevò un angolo della bocca come se stesse trattenendo una risata. Poi, forse percependo il mio sguardo su di lui, lanciò un’occhiata nella mia direzione. Abbassai in fretta lo sguardo.

Alla fine ci ritrovammo in undici a litigarci il poco spazio lungo la linea.

«Spostati, ventisette!» Sentii un gomito tra le costole. Nono­ stante io fossi la metà di qualsiasi altro uomo presente, alzai di scatto la testa, pronta a replicare a tono, ma la risposta mi morì sulle labbra quando riconobbi Fazim Al’Motem.

Mi morsi la lingua per non imprecare. Era stato Fazim a insegnarmi tutte le parolacce che conoscevo, quando aveva otto anni e io sei. Ci avevano beccati a snocciolarle: a me avevano strofinato per bene la bocca con la sabbia mentre lui aveva negato tutto, dan­ do tutta la colpa a me. Dustwalk era una piccola città. Conoscevo Fazim da sempre e lo odiavo da quando avevo iniziato a capire qualcosa del mondo. Ultimamente trascorreva gran parte del suo tempo nella casa di mio zio, dove ero costretta a vivere anch’io, e cercava sempre di infilare le mani sotto il vestito di mia cugina Shira. Quando lei non c’era, ci provava pure con me.

Che diavolo ci faceva lì? Be’, visto che aveva una pistola in mano si poteva facilmente immaginare.

Maledizione.

Una cosa era essere smascherata come ragazza, tutt’altra essere riconosciuta da Fazim. Avevo passato diversi altri guai da quella volta in cui mi avevano sorpresa a dire parolacce, ma ero stata davvero picchiata soltanto una volta, non molto dopo la morte di mia madre, il giorno in cui avevo preso, diciamo in prestito, uno dei cavalli dello zio per uscire da Dustwalk e andare in città. Ero quasi a metà strada, verso Ginepria, quando mi avevano bloccata. Non ero riuscita a salire su un cavallo per un mese intero, dopo che zia Farrah e il suo frustino ebbero finito con me. Se zia Farrah avesse scoperto che mi trovavo a Deadshot a scommettere soldi che non avrei nemmeno dovuto possedere, stavolta sì che me la sarei vista brutta.

La cosa più sensata da fare era girare i tacchi e andarsene.

Ma agendo in modo sensato mi sarei ritrovata con cinquanta fouza in meno. E il denaro scarseggiava più del buon senso.

Mi resi conto di aver assunto una posa da ragazza, così mi raddrizzai e mi piazzai proprio di fronte al bersaglio. I bambini stavano ancora posizionando le bottiglie. Fazim li inquadrava uno a uno nel mirino gridando «Bang, bang, bang!» e rideva quando i piccoli scappavano spaventati. Quanto avrei voluto che il rinculo della pistola gli spaccasse i denti, cancellandogli quel sorriso dalla faccia.

I bambini si dispersero in fretta e restammo soltanto noi tiratori e le nostre bottiglie. Tutto intorno a me le pistole presero a sparare. Io mi concentrai sulle mie sei bottiglie. Avrei potuto andare a segno bendata. Ma non volevo rischiare. Valutai la distanza, allineai la canna della pistola, presi la mira. Una volta soddisfatta, premetti il grilletto. La bottiglia all’estremità destra esplose in mille pezzi e le mie spalle si rilassarono un po’. Il colpo successivo fu un gioco da ragazzi, anche quello seguente. Quattro bottiglie eliminate in rapida successione.

Premetti il grilletto per la quinta volta. Un grido disturbò la mia concentrazione. Fu l’unico avvertimento, prima che qual­ cuno mi urtasse.

Il colpo andò largo.

Fazim era stato spinto e mi era finito contro prima di precipitare a terra con un altro tiratore sopra. Si levò un coro di proteste dalla folla mentre Fazim si rotolava nella sabbia con l’altro tizio. La zuffa fu presto interrotta dall’intervento dell’energumeno che mi aveva accolto alla porta, e Fazim venne trascinato via per il colletto. Hasan li guardò allontanarsi con un’espressione annoiata, poi tornò a rivolgersi agli spettatori. «I vincitori di questo turno sono…»

«Ehi!» urlai senza rifletterci. «Mi spetta un altro proiettile.» Molti scoppiarono a ridere. E così ogni sforzo di passare inosservata andava a farsi benedire. Sentivo tutti gli sguardi incollati alla mia schiena. Ma era troppo importante. Troppo importante per lasciar perdere. Hasan non parve affatto con­ tento del mio intervento e avvertii un misto di umiliazione e rabbia salirmi in gola. «Non è così che funziona, ventisette. Sei proiettili, sei bottiglie. Niente eccezioni.»

«Non è giusto! Quello mi ha spinto.» Feci un cenno verso Fazim che se ne stava appoggiato al muro.

«Questo non è un cortile di scuola, pivello. Nessuno ci ordi­ na di essere giusti, qui. Ora, puoi usare il tuo ultimo proiettile e perdere, o uscirtene dalla riga e rinunciare.»

Ero l’unico tiratore ad avere ancora un colpo in canna. La folla cominciò a intimarmi di togliermi di mezzo e sentii la rabbia salirmi alvolto.

In piedi sulla riga, sollevai la pistola. Avvertivo il peso dell’unico proiettile nel tamburo. Liberai un sospiro per spostare lo sheema dalle labbra.

Un proiettile. Due bottiglie.

Feci due passi verso destra e mezzo indietro. Ruotai il corpo e cercai di figurarmi tutto nella mente. Mirando dritto al centro, non avrei colpito la seconda. Spostare la mira, invece, poteva significare non colpire nessuna delle due bottiglie.

Cinquanta fouza.

Allontanai dai miei pensieri le urla e la confusione. Ignorai il fatto che gli occhi di tutti fossero puntati su di me e che or­mai non ci fosse più speranza di passare inosservati. La paura riemerse, la stessa che mi si era annidata dentro negli ultimi tre giorni, dalla notte in cui ero sgattaiolata fuori dalla casa di mio zio per raggiungere Tamid e avevo sentito zia Farrah pronunciare il mio nome: «… Amani?».

Non avevo afferrato altro, ma era stato sufficiente a farmi fermare.

«Le serve un marito.» La voce di mio zio Asid sovrastava quella della sua prima moglie. «Qualcuno che le faccia mettere un po’ di giudizio a suon di schiaffi. Fra meno di un mese sarà un anno che Zahia è morta, e allora la ragazza sarà libera di sposarsi.» Da quando mia madre era stata impiccata, lentamen­te avevano smesso di pronunciare il suo nome come se fosse un’imprecazione. Lo zio si limitava a parlare dei morti come si parla di affari.

«È già un’impresa trovare marito alle tue figlie.» Zia Far­rah sembrava seccata. «E ora pretendi che ne trovi uno anche alla mocciosa di mia sorella?» Lei non aveva mai pronunciato il nome di mia madre. Non da quando l’avevano impiccata.

«La prenderò io in sposa, allora.» Zio Asid l’aveva detto come se stesse trattando la compravendita di un cavallo. E a me per poco non erano cadute le braccia sulla sabbia.

«È troppo giovane» aveva risposto zia Farrah con quella punta di rabbia nella voce con cui solitamente poneva fine a una conversazione.

«Non più di Nida quando l’ho sposata. E comunque vive già a casa mia. Mangia il mio cibo.» Zia Farrah solitamente dettava legge in qualità di prima moglie, ma di tanto in tanto il marito puntava i piedi e ora zio Asid si era messo in testa una cosa e l’avrebbe ottenuta. «Può restare qui in veste di mia moglie oppure andarsene con qualcun altro. Io scelgo di farla restare.»

Io non avevo scelto di restare.

Avevo scelto di scappare o di morire provandoci.

E in quel momento avevo visto tutto con chiarezza. Me stessa, il mio obiettivo. Nient’altro contava.

Premetti il grilletto.

La prima bottiglia andò in frantumi all’istante. La seconda ondeggiò per qualche attimo sul bordo dell’asse di legno. Riuscivo a scorgere la scheggiatura sul vetro spesso, là dove l’avevo colpita. Trattenni il respiro mentre la bottiglia oscillava a destra e a sinistra.

Cinquanta fouza che non avrei mai più rivisto.

Cinquanta fouza evaporati, così come la mia unica via di scampo.

La bottiglia picchiò a terra andando in mille pezzi. La folla ruggì. Tirai un lungo sospiro di sollievo.

Quando mi voltai, Hasan mi stava guardando come se fossi un serpente sfuggito a una trappola. A distanza, il forestiero mi osservava, le sopracciglia inarcate. Sorrisi dietro lo sheema.

«Allora?»

Hasan mi guardò incurvando il labbro superiore.

«In riga per il secondo turno.»

Traduzione di Sara Reggiani

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