Pedar, Il vampiro della Bassa

Prologo

Viadana è un paese della Bassa mantovana che è tutto un programma. Appena arrivi, ci trovi due cartelli.

Uno che dice: “Viadana, la città del melone”. E lì, lo straniero attacca a domandarsi di già se i viadanesi non abbiano nulla di meglio di cui andare orgogliosi.

L’altro è ancora meglio: “Modera la velocità, in questo Comune non abbiamo cittadini in più”. E anche qua, si dovrebbe avere già capito che gente siano i viadanesi.

Pedar abitava a Sabbioni, una frazione di Viadana. Aveva una bella pancia di sessant’anni; faceva l’agricoltore nella sua melonaia, nelle basse della Bocca Bassa, e faceva anche qualche lavoretto col fratello, Gino, il muratore. Si alzava alle cinque della mattina e andava a letto alle nove, con le galline.

Quella primavera là, era di maggio, il paese era in rivoluzione per via dell’arrivo di due americani. Giovani, non più di vent’anni. Con quella bella faccia bianca di quelli che non hanno mai lavorato nella loro vita.

Avevano comprato Il Boscone, la casa dietro all’Oglio; uscivano solo la notte e e avevano un brutto cane giallo e cattivo, che la mattina mostrava i denti e correva dietro a quelli che passavano col trattore per andare nei campi. Proprio sulla strada che Pedar doveva fare per andare alla sua melonaia.

Capitolo 1. Il brutto cane giallo

– Vacca, che sole che scotta! – aveva detto Pedar la mattina dopo che era stato morso dal cane. Un brutto cagnaccio giallo, che gli aveva preso per primo un pantalone della tuta da lavoro.

Pedar, che era nato e cresciuto nella Bassa, non si era mica tanto spaventato. Gli aveva mollato un piede nel didietro e gli aveva detto “Va via!”. Il cane, però, invece di tornarsene a casa sua, gli si era voltato contro e gli aveva morso una chiappa.

Pedar era andato a lavorare lo stesso, che quella mattina aveva da fare col Gino.

Lui era un uomo bello squadrato, di quelli di una volta, e uno sgagnone sul culo non è una roba così brutta da far restare a casa uno così. La prima roba che aveva sentito era un bruciore in un posto di cui era meglio non parlare, e il sole che scottava un po’ troppo per essere primavera.

La giornata l’aveva passata sulla tettoia del Gino, che doveva mettere a posto, ma faceva un po’ fatica a lavorare perché la natica gli bruciava. Aveva preso perfino dell’ubriacone, dal fratello.

Il pomeriggio era così stanco che aveva mandato a quel paese la melonaia, ed era andato a casa a coricarsi sul divano. La Maura, sua moglie, era indaffarata in casa, col grembiule, la scopa e la paletta per la spazzatura. Quando si era vista Pedar tirarsi via gli stivali di gomma e buttarsi sul divano a pancia sotto, gli aveva guardato le braghe e lo strappo sul fondoschiena.

– Pedar, cos’è che hai fatto sul culo? Hai uno sbrego che fa paura! – – È stato quel brutto cagnaccio giallo del Boscone –, le aveva risposto. – Ma quale, lo yorsiaild degli americani?

Pedar si era voltato verso la Maura, l’aveva guardata d’un male che sembrava la volesse sbranare. – Il cane. Se ti dico che è stato quel brutto cane, è stato un cane. Mica uno yorsiaild. Cos’è poi sto yorsiaild?

La Maura, che era di Piacenza, faceva la sartora ma aveva fatto le scuole al professionale, si era voltata verso il mobiletto sotto la televisione per tirare fuori l’ago e il filo.

– Il yorsiaild. Vacca cane se sei ‘gnorante. Aveva ragione la vecchia Bice: un pesce gatto non diventa mica un siluro. Il yorsiaild è un can che abbaia! Cosa vuoi che sia!

Pedar aveva guardato la Maura, mica tanto convinto.

– Sarò anche ‘gnorante, ma te sei proprio una bella villana – le si era voltato contro. – E adesso, stacca la puntina e fammi fare una dormita.

La Maura, che era abituata a suo marito e sapeva che era fine quanto una badilata di strame sopra un muro bianco, aveva fatto spallucce, per poi cavargli le braghe e mettersi a cucire. Con un’occhio all’ago e l’altro sulla chiappa di Pedar, la Maura guardava le braghe e il didietro del marito.

– Pedar… varda che quello sgagnone lì non è mica tanto bello –, gli aveva detto, dopo avergli cucito i pantaloni.

– Cosa vuoi che faccia, donna! Non era mica un leone! Era una cane grosso al massimo come un sorcio!

La Maura aveva messo giù le braghe, e aveva guardato meglio il morso.

– Io dico che non è bello. Devo chiamare la Curnacia?

La Curnacia era la vecchia Maria, che stava a San Matteo nella via Ghetto. Veniva da Verona, e tutti la chiamavano la Curnacia perché era sempre vestita di nero come un prete. Dicevano che fosse una Strega.

Pedar si era girato sul divano, non aveva nemmeno tenuto in nota quello che la Maura gli aveva detto e si era messo a dormire. 

La Maura, allora, l’aveva mandato tra i denti a buttarsi in Po, e aveva iniziato a preparare la cena.

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