I Regni del Nord, del Sud e dell’Est
I Regni del Nord, del Sud e dell’Est

Capitolo I

– Agi? Agi, dove sei? Forza ragazzo che la zuppa è in tavola e si raffredda! Su, sbrigati! Poi, rientrando in cucina: – Benedetto ragazzo, ogni volta è la stessa storia. Mai che si riesca a capire cosa ha da fare quando è ora di cena.

Beth era una donna alta, forte, con un volto aperto e grandi occhi limpidi che sembravano scavarti dentro e leggerti in fondo all’anima. Aveva conosciuto Rupert in uno dei suoi viaggi, su una nave che portava tronchi di legnoferro dal Porto di Clo alla città di Etzabel, sulla foce del Pireno. A quel tempo lei era il timoniere della nave e per quanto fosse una bellissima ragazza nessuno si permetteva di mancarle di rispetto, neanche gli Esbolliti, che consideravano una donna giusto un gradino sotto a una buona cavalcatura. Beth sapeva usare il suo stocco come una spadaccina professionista, ma raramente ne aveva bisogno: le bastavano le mani per rimettere a posto le avance dello spaccone di turno che pensava bastasse farle un complimento e soprattutto far tintinnare una borsa piena di talenti per portarsela a letto. Non che Beth disdegnasse gli uomini. La ragazza non era certo una verginella, non con il lavoro che faceva, quasi sempre in mezzo alla peggior feccia che si potesse trovare nei Mari di Cristallo, ma voleva essere lei a scegliere con chi passare la notte e soprattutto se passarla, la notte, con qualcuno.

D’altra parte neanche Rupert era un santo. Quando si viaggia molto da soli, le prime cose che si desiderano quando si entra in una locanda sono un bagno caldo, un piatto caldo e un letto caldo, e fra i tanti modi di scaldare un letto sicuramente il più piacevole è quello di invitarvi una bella donna. D’altra parte Rupert non era sposato, non aveva legami fissi e non dava mai false speranze a nessuna. Era un uomo onesto, un galantuomo, a modo suo. Soprattutto, e questa era una cosa che attirava molto le donne, era divertente e mai volgare, tanto meno violento. Sapeva dare allo stesso tempo una sensazione di forza e di tenerezza, non come quei gradassi gonfi di birra e ispidi come ricci di montagna che bazzicano le taverne del Porto di Clo e che pensano che un uomo sia un vero uomo solo se sa ruttare più forte degli altri e se non ha visto il sapone da almeno sei mesi.

Come si incontrarono i due e come decisero di mettersi insieme è un’altra storia. Fatto sta che dopo cinque anni di vita in comune, spesa per lo più navigando sui Mari di Cristallo, decisero di prendere il gruzzolo che avevano messo da parte e trovarsi una fattoria in uno dei Quattro Regni, lontano dai vecchi compagni di avventure e soprattutto da quell’odore inconfondibile di umanità e budella di pesce che caratterizza tutti i porti del continente. Una bella fattoria in campagna, un orto, una mucca per avere latte fresco, qualche gallina e, soprattutto, una forgia, una grande forgia per lavorare il metallo.

Era già da due anni che Rupert e Beth avevano trovato la fattoria dei loro sogni, quando nacque Agi. Per i due essere diventati genitori fu un’avventura alla quale non si sentivano assolutamente preparati. Non era come per i contadini del posto, che facevano figli come se fossero conigli e per i quali una famiglia non era tale se non aveva almeno sei bocche da sfamare, quattro cani, due gatti e un numero imprecisato di altri animali. Rupert e Beth erano sempre stati spiriti liberi e persino il loro legame era improntato a una certa indipendenza e al rispetto reciproco delle proprie esigenze; un modo di pensare non certo comune in quelle terre e in quell’epoca, anzi, un modo di pensare decisamente non comune ancora oggi nei Quattro Regni. Ad ogni modo ce la misero tutta, cercando di sviluppare in loro figlio quello stesso spirito critico e desiderio di libertà che li caratterizzava entrambi.

Ora, essere genitori e lasciare campo libero ai propri figli non è che sia proprio impresa da poco, come si resero conto quasi subito. Questo tuttavia diede ad Agi una grande fiducia in sé stesso e così, quello che altri pretendono dai bambini per il semplice fatto di essere adulti, Agi lo diede ai suoi genitori proprio perché mai preteso, ma piuttosto guadagnato: il rispetto.

Questo tuttavia non impediva ad Agi di essere un ragazzo e, come tutti i ragazzi, di cercare una propria strada, non sempre in linea con gli insegnamenti paterni e materni. D’altra parte Beth e Rupert avevano affrontato situazioni ben più difficili di un piccolo ribelle dal cervello fino, per cui non si lasciarono impressionare più di tanto e riuscirono a mantenere un certo controllo della situazione. Insomma, era una famiglia felice quella che la sera prima della Cascata di Stelle si apprestava a mangiare una cena semplice ma sostanziosa in una sperduta fattoria sette stare e mezza a sud-est di Oressa. A un Maestro Armaiolo non manca mai di che bandire una tavola, anche se non è certo ricca come quella di un nobile.

– Allora, piccola peste, si può sapere dov’eri? Vatti a lavare le mani, ben bene fin sopra i gomiti, che sembri uscito dalla tana di una volpe!

Il ragazzo ignorò l’osservazione, gli occhi che ancora gli brillavano per la scoperta fatta.

– Madre, lo sai che nel campo a nord del Bosco Fitto, sotto quella quercia storta che il Vecchio Tap non ha mai voluto tagliare, c’è l’entrata di una caverna sotterranea?

La donna scosse la testa, sorridendo.

– Vatti a lavare ora. Ne parleremo a cena.

– D’accordo madre. Ma mio padre dov’è? – rispose Agi prendendo un grosso pezzo di sapone e strofinandosi con vigore mani e avambracci, dopo averlo immerso nella bacinella accanto alla finestra.

– Sta arrivando. È andato giù in cantina a prendere un sacco di noci e una forma di formaggio da mangiare con le pere che ci ha portato zio Rubeus.

– Pere, formaggio? Cosa si festeggia?

– Lo saprai, lo saprai. Strofinati bene quel gomito, che sembra un pezzo di carbone.

Rubeus non era proprio uno zio, piuttosto era un amico dei genitori di Agi, un vecchio marinaio che come loro aveva deciso di lasciare il mare per passare gli ultimi anni sulla terraferma. Non che non amasse quella vita, ma aveva visto ormai più di cinquanta solstizi e le articolazioni avevano già iniziato a farsi sentire. Un Guaritore gli aveva consigliato un clima meno umido e più soleggiato e così si era trasferito nel Regno del Sud, vicino alla capitale, Issah. Non mancava tuttavia di far visita alla coppia almeno una volta all’anno. Anche Rubeus, come Rupert e Beth, aveva una muscolatura poderosa, tipica di chi passa la maggior parte del proprio tempo a tesar scotte e passar cavi, ma negli ultimi anni aveva messo su qualche chilo di troppo, complice una certa Elsa, vedova dell’oste del villaggio dove Rubeus viveva, che pensava che un uomo non fosse tale se non mangiava almeno un quarto del suo peso in cibo al giorno.

Quello che più piaceva ad Agi, del vecchio marinaio, erano le storie che raccontava. Ogni volta ne aveva una nuova e spesso non bastava un pomeriggio a terminarla. A volte una storia poteva addirittura durare svariati giorni ma Rubeus non se ne era mai andato prima di averla finita. Quando il vecchio raccontava, Rupert e Beth sorridevano spesso d’intesa su qualche passaggio un po’ inverosimile ma si guardavano bene dal fare commenti, anche perché di cose strane ne avevano viste tante anche loro, per cui non si poteva mai dire: magari erano successe sul serio.

– Forza ragazzo, dammi una mano.

Quella sera Rupert aveva messo la camicia che gli aveva cucito Donna Sheva per ringraziarlo di averle costruito il nuovo cancelletto in ferro battuto per il tempietto di Briga, dea del focolare domestico e ispiratrice delle arti. Rupert lo aveva fatto volentieri, perché Briga era anche la dea della forgia e la protettrice di tutti i fabbri e i maniscalchi. Quel cancello era una piccola opera d’arte e sicuramente la dea ne sarebbe stata molto soddisfatta, aveva pensato.

Comunque doveva essere davvero un giorno speciale quello, pensò Agi, perché difficilmente Rupert si vestiva a festa, a meno che non dovesse andare al Castello a fare qualche commissione per il Duca di Libeth. Adesso che ci pensava, anche Beth aveva qualcosa di diverso. Sotto il grembiule che usava solitamente quando cucinava aveva messo un vestito: non la solita gonna e la camicetta che portava spesso e tanto meno il completo che indossava quando andava a cavalcare: una giacchetta di cuoio sopra un’ampia camicia dalle maniche a sbuffo, pantaloni in pelle morbida e aderente, comodi stivaletti in pelle lavorata. Quello era un “vero” vestito, uno che Agi non aveva mai visto prima, come quelli che indossavano al castello le dame di corte. Doveva essere davvero una serata speciale. Così, senza dire nulla, corse rapidamente in camera, si tolse calzoni e camicia, si diede una sciacquata veloce al viso e si mise i robusti pantaloni che la madre gli aveva fatto per l’ultima Festa del Sole, assieme all’unica camicia decente che avesse.

– Ehi, Agi, dove vai? E quella mano? Per l’Occhio di Zola, ma che gli piglia?

– Eccomi padre, dammi quella forma, la porto io.

– Ma guarda un po’! – esclamò l’uomo sorridendo. – Abbiamo un damerino di corte qui!

– Te lo avevo detto che se ne sarebbe accorto. Abbiamo un figlio attento come un falco e svelto come un furetto. Vieni qui ragazzo. Non ti si può nascondere niente, eh? – disse Beth scompigliando la zazzera rossa del figlio.

– Veramente tutto quello che ho capito è che è una serata speciale, ma se lo è per voi allora lo è anche per me, giusto padre?

– Giusto ragazzo, giusto. Questa è veramente una serata speciale ma, prima, sediamoci a tavola.

La tavola in questione non era il solito tavolaccio che si trovava nelle fattorie del Regno, bensì una vera e propria tavola, con le gambe lavorate e un robusto piano in legno di rosa nera, splendide venature rossastre nel legno screziato di giallo. Era un regalo del Mastro d’Ascia di Scarath per ringraziare Rupert di un completo di asce e scalpelli davvero unico nel suo genere che gli aveva fatto alcuni mesi prima. Sulla tavola Beth aveva disteso una splendida tovaglia ricamata e apparecchiato con veri piatti in cotto e bicchieri di vetro, non le solite ciotole in legno e bicchieri di coccio che usavano tutti i giorni. C’erano persino coltelli d’acciaio e cucchiai in legnoferro accanto ai piatti! Sembrava la tavola di un re, non certo quella di un umile artigiano.

Rupert sogghignò vedendo lo sguardo stupefatto del figlio mentre entrava nella sala da pranzo. – E non hai ancora visto il meglio – disse, strizzando l’occhio verso Beth.

– Forza, forza, voi due, andate a tavola che altrimenti do tutto ai maiali! – ringhiò la donna, restituendo al marito un cenno d’intesa.

Agi, dopo aver poggiato la forma di formaggio a un capo della tavola, vicino a una cesta nella quale Rupert stava mettendo delle noci, si diresse subito al suo posto ma senza sedersi. Nell’altra cesta c’erano già le pere di zio Rubeus. A quel punto Beth entrò come un generale a un trionfo sulla via principale di Loth. Aveva tra le mani un largo vassoio di legno con al centro nientemeno che un’oca farcita, circondata da una corte di mele cotte e foglie di lattuga fresca. Sorridendo la poggiò al centro della tavola. Il ragazzo era semplicemente sbalordito ma conosceva bene i genitori e sapeva che non avrebbero detto una parola sul perché di tutto quel ben di dio, finché non fosse giunto il momento giusto. Era evidente che se la stavano godendo un mondo.

Anche Rupert non si sedette subito ma prese un po’ di carne, di formaggio e una pera dalla tavola, si diresse verso il focolare e li gettò nel fuoco dicendo: – Calla, madre della Terra e di tutti gli esseri viventi, ti ringraziamo per questi tuoi doni che ti preghiamo di dividere con noi.

Fatto questo i tre si sedettero a tavola e finalmente si cominciò a mangiare. Agi non ce la faceva più a resistere ma stette al gioco. Non sarebbe stato lui a chiedere per primo.

Dopo qualche minuto Rupert scoppiò in una fragorosa risata: – E va bene ragazzo. Si vede che sei un duro. Devi aver preso da tua madre. Duro e testardo!

– Senti chi parla! – protestò sorridendo Beth. – Quello che quando il capitano della “Zanna Spezzata” si rifiutò di portarci oltre il Cristallo Verde, lo sfidò in ogni taverna del porto a chi bevesse più Succo di Drago, finché non acconsentì ad accompagnarci all’Isola di Horsa!

– Ah sì? E tu, allora, che…

– Va bene, va bene! Allora, glielo dici tu o glielo dico io? – tagliò corto la donna.

– Prima le signore, ovviamente.

– Agi, – disse Beth volgendo uno sguardo serio e penetrante al figlio, – tra sei mesi avrai una sorellina.

Il ragazzo sbatté gli occhi, sorpreso. Sapeva che prima o poi avrebbe avuto un fratellino o una sorellina, insomma, in fondo quando mai si era vista una famiglia con un solo figlio? Non certo da quelle parti, almeno. Ma, una sorellina? Che ci poteva fare con una sorellina?

– Oh, mi raccomando, – disse sorridendo Rupert, – non esagerare con l’entusiasmo, che potrebbe farti male!

– No, ecco, beh… Insomma, sono felice, certo, molto felice… Io…

– Va bene ragazzo, non ti preoccupare. Avrai tempo per abituarti all’idea.

– E come pensate di chiamarla? – chiese Agi, cercando di superare la sorpresa e soprattutto l’imbarazzo.

– Lisa, come la nonna di Beth. Era una donna forte e molto, molto saggia.

– Lisa… – scandì Agi, cercando di assaporare quel nome che lo avrebbe accompagnato per chissà quanti anni. – Lisa… Sì, bello, ma… cosa significa?

– Significa sciolta, cioè libera, nella lingua dei nomadi del Davenhert.

– Esatto. – confermò Beth, poggiando una mano su quella del marito. – È il nostro augurio per una lunga vita di avventura e libertà.

– Bene, e adesso festeggiamo! Forza, che dobbiamo rendere il giusto onore al pranzo preparato da tua madre! – esclamò Rupert, fissando con orgoglio la donna.

Thump!

Il colpo rimbombò nella piccola sala.

– Cosa è stato?

L’uomo aggrottò la fronte.

– Non so, mi è sembrato venisse dalla porta…

Thump!

I tre girarono la testa verso l’uscio.

– Aiuto… Per favore, aiutatemi.

La voce era sottile, roca, come di chi avesse ormai esaurito tutte le forze solo per arrivare fin lì. Sia Rupert che Beth si alzarono agilmente dalla tavola e si diressero verso la porta. Non fu necessario alcun cenno d’intesa: erano abituati a muoversi rapidamente quando ce n’era la necessità, e quello sembrava proprio uno di quei casi.

Rupert aprì la porta mentre Beth si mise rapidamente alla finestra sbirciando fuori, nel buio, portando la mano alla mannaia che aveva usato per tagliare il collo all’oca. A terra, raggomitolata contro lo stipite della porta, c’era una figura malandata, coperta da uno scialle nero chiazzato di sangue.

– Tessa! Tessa, per la Dea, ma cosa è successo? Aspetta, ti aiuto, così…

Rupert aiutò la ragazza a rimettersi in piedi, perché di una giovane donna si trattava. I due attraversarono la soglia.

– Ecco, appoggiati a me.

Beth arrivò immediatamente con bende pulite e una bacinella di acqua calda. Come avesse fatto in pochi secondi a procurarsela era un mistero ma lei era fatta così: aveva una sua magia, era sempre pronta, qualunque cosa succedesse.

– Dove sei ferita? Cosa ti è successo bambina mia? Fammi vedere.

La voce di Beth era dolce, affettuosa ma decisa, quella di chi di ferite ne ha viste tante e sa bene come trattarle.

– I demoni… I demoni… dobbiamo scappare, andare via! Oh Madre, non possiamo restare qui, dobbiamo fuggire subito, vi prego! Per favore.

– Calmati ora e dimmi cosa è successo, dall’inizio. Di quali demoni stai parlando? – le domandò la donna. La voce era allo stesso tempo calma e autoritaria, mentre le dita esaminavano veloci e con perizia il corpo di Tessa alla ricerca di ferite o fratture.

– Sono arrivati all’imbrunire. Erano centinaia, migliaia, gli occhi di fuoco, neri come il cuore di Oki, è terribile… Li stanno massacrando tutti! Tutti… – scoppiò in singhiozzi la ragazza.

Beth fece un cenno a Rupert, come a dire: È tutto a posto, è solo spaventata, evidentemente il sangue non è suo.

– Ascolta Tessa, devi dirmi tutto, con calma. Dal principio, va bene?

Questa volta era stato Rupert a parlare, lentamente, con quel tono pacato ma inequivocabile che non ammette repliche. Dubitava che migliaia di demoni, qualunque cosa fossero, avessero assalito la città. Probabilmente era una delle tante bande di tagliaborse che scorrazzavano nella regione.

La ragazza lo fissò, poi annuì, chiuse gli occhi e cominciò a raccontare. Ora il respiro si era fatto più costante, meno affannoso, ma era chiaro che aveva ancora un groppo in gola perché ogni tanto la voce si spezzava in un singulto.

– Ero all’osteria, come al solito. Gorgi mi aveva chiesto di andare a spillare un paio di brocche di quello buono, che era venuto alla locanda il capitano delle Guardie con un paio di suoi amici. Erano tutti lì, che festeggiavano e ridevano quando s’è sentito un tremore. Tutto tremava, era un rombo cupo, pensai a un terremoto, ma.. insomma, qui di terremoti non ne abbiamo mai avuti! Comunque, ero davvero spaventata. Io non…

Tessa si bloccò, deglutì, poi con voce rotta: – Beth, dobbiamo andare via, vi prego!

– È tutto a posto. Va bene così, cara, vai avanti…

– No, sul serio. Non capite! – insistette Tessa, sollevando il viso rigato dalle lacrime. Gli occhi erano rossi, le labbra screpolate. – Non c’è tempo, dobbiamo andare via!

Rupert scosse la testa. C’era qualcosa che non lo convinceva. Tessa era una ragazza forte, una con la testa sulle spalle. Doveva esserci qualcosa di vero in quella storia, qualcosa di più che una banda di briganti.

– Beth, chiudi le imposte e spegni i lumi, lascia accesa solo la lampada da viaggio, con lo schermo abbassato. – disse poi alla moglie.

La casa calò in un’oscurità quasi completa. La fattoria di Rupert e Beth era stata costruita su un colle al centro del quale c’era una larga fossa, circondata da un boschetto di cipressi. Probabilmente era il tetto di una caverna sotterranea, crollato in tempi antichi. La costruzione era in pratica quasi invisibile di giorno. Di notte, poi, se non si accendevano lumi, lo diventava del tutto.

– Vai avanti, Tessa. Non ti preoccupare, qui siamo al sicuro.

– No! Continuate a non capire. Nessuno è al sicuro da… da quelle bestie o… qualunque cosa siano!

Rupert scosse la testa. Non si affronta un nemico che non si conosce. Gli piangeva il cuore ma doveva saperne di più. Uscire e scappare a casaccio in una qualche direzione senza sapere cosa ci fosse là fuori sarebbe stato da incosciente.

– Mi spiace, ragazza, se insito, ma dobbiamo sapere. Su, continua.

La ragazza tirò su col naso, quindi bevve un sorso d’acqua da un bicchiere che gli aveva messo tra le mani Beth. Girò il capo, quasi a voler cercare con lo sguardo sostegno, poi, quando si rese conto di non avere alternativa, sospirò e ricominciò a raccontare.

– Insomma, il Capitano e gli altri sono usciti per vedere cosa stesse succedendo. Io ero appena risalita dalla cantina che li ho visti uscire e…

La ragazza si interruppe di nuovo.

– Uscire e…?

– Il suono. Il suono è diventato sempre più forte, sembrava… un temporale estivo, ecco… un rombo continuo, e poi si è scatenato l’inferno. Era un’onda, un’onda nera che ha travolto tutti quelli che stavano in strada. Le case hanno incominciato a bruciare, la gente gridava. Gorgi mi ha preso per una spalla e mi ha ricacciato a forza in cantina. Il passaggio dietro il vecchio tino, mi ha detto. Forza, vai che noi ti seguiamo. Così sono scesa dabbasso, ho spostato la mensola che apriva il passaggio e…

Beth rivolse uno sguardo sconcertato alla ragazza: – Quale passaggio? Di cosa stai parlando?

– Molti anni fa, durante la Guerra dei Quattro Regni, Gorgi scoprì dietro il muro della cantina una serie di gallerie naturali, così pensò bene di costruire un passaggio che poi nascose dietro a un vecchio tino. Fece un doppio fondo al tino dal quale si poteva accedere al cunicolo spostando una mensola sul muro. Un gran bel lavoro. Era praticamente invisibile. Mi raccontò che lo salvò più di una volta dagli Arruolatori dell’Usurpatore. Due anni fa mi mostrò il passaggio, nel caso gli fosse capitato qualcosa. Non ho figli, mi disse, e voglio che alla mia morte la locanda sia tua.

– Capisco, ma vai avanti. Cosa è successo dopo?

– Sono entrata nel passaggio ma ero troppo spaventata e ho perso l’orientamento. È pieno di gallerie, là sotto. Così, invece di uscire sotto la Roccia del Lupo, poco fuori il villaggio, mi sono ritrovata vicino al Tempio di Briga. Ero confusa, non capivo cosa stesse succedendo. Stavo per rientrare quando qualcuno mi ha spinto. Erano due ragazze, inseguite da uno di quei mostri. Era buio e non ho capito chi fossero ma ho sentito un grido e del sangue mi è schizzato addosso… Ero terrorizzata. Non so come sono rotolata di nuovo nel passaggio sotterraneo. Mi sembrava un incubo. Credevo mi stessero alla calcagna. Mi sono trascinata sulle mani e sulle ginocchia, ho corso, sono caduta non so quante volte e poi ho visto la luce delle lune. Così sono uscita di nuovo e ho sono venuta fin qui con le ultime energie che mi erano rimaste.

La ragazza li fissò di nuovo disperata. Afferrò il braccio di Beth, stringendo fino a far diventare bianche le nocche della mano.

– Dobbiamo andar via, subito, vi prego. Ho paura… Per favore, per favore…

– Rupert, vieni a vedere.

La voce di Beth era fredda, calma.

L’uomo si alzò in piedi e si diresse verso la moglie, che aveva riaperto la porta di casa e stava guardando fuori. Anche Agi si avvicinò per sbirciare. Si vedeva come un alone rosso diffuso a nord, più o meno dove c’era il villaggio.

– Sta bruciando – constatò laconica Beth. Non c’era bisogno di altri commenti. Non era la prima volta che vedevano uno spettacolo del genere.

– D’accordo, preparatevi. – ordinò Rupert. – Tu Agi, mettiti le cose più robuste che hai, infila un cambio nello zaino e prepara quattro otri d’acqua. Beth, vestiti e sella i cavalli. Io prendo le armi.

– Credo sia troppo tardi, amore. – disse piano Beth, con un tono piatto che fece venire i brividi su per la schiena ad Agi. Non aveva mai visto i suoi genitori così. Si erano come trasformati: freddi, tranquilli, sicuri, ma con un’espressione stampata sul viso che tradiva un senso di impotenza. Forse in cuor loro avevano già valutato la forza del nemico e calcolato le probabilità di uscirne vivi. Non dovevano essere molto alte.

– Va bene. Agi, tu e Tessa andate nella stanza sul retro e barricatevi dentro. Prendi questa daga e non uscire di lì per nessun motivo.

– Ma padre, io voglio…

– Fa come ti ho detto! – ribatté secco l’uomo.

Poi, rivolto alla moglie: – Beth, prendi l’arco, io preparo le armi e prendo i corpetti.

Rupert si diresse veloce verso l’armeria dove prese alcune spade, un’ascia e un fascio di giavellotti leggeri, ideali contro un attacco a cavallo; quindi si infilò nella cintura alcuni coltelli da lancio e un paio di piccole accette, sempre da lanciare. Infine prese due corpetti di cuoio con agganciati due corti grembiuli che servivano a coprire l’inguine senza impacciare i movimenti di chi li indossava. Era una sua invenzione e ne andava molto fiero.

– Ecco, metti questo. Ci metteremo sul bordo del colle, tu sul lato destro, io a sinistra, vicino al ciliegio.

– D’accordo, dammi una mano con queste faretre. – rispose Beth, che nel frattempo si era sfilata il vestito ed era rimasta solo con una camicetta e i lunghi mutandoni di lino che indossava sotto l’abito. Si infilò rapidamente delle braghe di pelle, il corpetto e gli stivali.

Un altro vantaggio nella posizione del colle su cui sorgeva la fattoria era che un eventuale attacco poteva giungere solo da nord: a est e a sud, infatti, il terreno andava giù a picco su un profondo torrente. Non che fosse impossibile salire da lì ma non certo a cavallo. A ovest il terreno era coperto da un fitto sottobosco inframmezzato da querceti e roveti piuttosto alti, difficili da superare sia a piedi che a cavallo. Certo un assedio avrebbe avuto presto ragione di queste difese, ma la fattoria non era un castello né pretendeva di esserlo; le bastava essere ben messa per un eventuale attacco di briganti o qualche banda di soldati staccatasi dalla colonna principale di un eventuale esercito invasore. A Rupert piaceva non lasciare nulla al caso.

Nel frattempo Agi si era barricato nella stanza da letto dei genitori, aveva messo un pesante baule di fronte alla porta e aveva bloccato l’unica finestra della stanza con un robusto saliscendi in ferro. Sia la porta che le ante erano in legnoferro e i muri erano belli spessi. L’unica cosa che lo avrebbe potuto far uscire da lì era il fuoco, ma questo avrebbe voluto dire che i suoi genitori non erano riusciti a bloccare gli invasori. Il tetto infatti non era di paglia, come in tutte le altre fattorie dei dintorni, ma di tegole di coccio su una struttura di legnoferro e muratura. Era una tecnica che Rupert aveva imparato nelle terre meridionali, dove le case sono di mattoni e non di legno come nel nord, a causa della scarsità di legname adatto a costruire in quelle terre calde e umide. Agi stringeva l’elsa della daga tanto da farsi male alle dita; era teso e contratto come la corda di una balestra. Ora che i suoi erano usciti, il silenzio era insopportabile.

Non durò a lungo, tuttavia. Presto si sentirono delle grida, lo scatto secco dell’arco della madre, un urlo di dolore; quindi il clangore delle spade, sempre più vicine, fino a che il suono del combattimento non arrivò in casa. In breve il rumore arrivo proprio da dietro la porta della stanza. Sentì delle urla bestiali e ogni tanto una parola, un rapido comando: suo padre e sua madre stavano combattendo in silenzio, dandosi una voce solo quando era strettamente necessario. Non così i loro avversari. A un certo punto sentì un forte colpo alla porta.

– Agi, vieni fuori! Presto!

Era sua madre. Le cose si dovevano esser messe davvero male. Spostò il baule. Ci mise un po’. Tessa era troppo spaventata per aiutarlo. La prese per un braccio ma lei si ritrasse. Allora le strinse l’avambraccio, fino a farle male. Agi era ancora un ragazzo, magro e dinoccolato, come tutti i ragazzi alla sua età, ma era più forte di quanto sembrasse. I suoi genitori l’avevano addestrato a combattere fin da piccolo e a resistere alla fatica e al dolore. Non era stato un addestramento pesante. In fondo erano in un Regno civile, dove raramente si vedeva qualcosa di più che qualche bandito. Le cose tuttavia spesso cambiano e la vita può sempre serbare qualche sorpresa. Così Agi passava gran parte del tempo, in cui non studiava o aiutava la madre nelle faccende domestiche, ad allenarsi con il padre o con qualche suo amico di passaggio.

Alla fine Tessa si scosse ma sembrava come imbambolata. Si lasciò trascinare senza fare più resistenza verso la porta che si spalancò di colpo. Agi alzò la daga: nel vano vide sua madre, di spalle, combattere contro un ammasso di stracci che ringhiava, nero come il carbone. La puzza lo colpì come un pugno allo stomaco. Non c’era solo l’odore di sangue e di feci nell’aria, tipico di una battaglia: c’era anche un altro odore, come di carne marcia, decomposta, dolce e nauseante. Non riuscì a vedere bene l’avversario della madre perché questa continuò a mantenersi fra l’essere ripugnante e i due giovani. E poi la casa era quasi completamente al buio.

– Forza, esci! Corri! Porta Tessa ai cavalli, dovete scappare, subito! Possiamo tenerli a bada ancora per poco!

– No, madre, no!

– Maledizione, Agi, vai! – gridò Beth con rabbia – Vai!

Quindi si lanciò verso il suo avversario facendolo arretrare e creando così un varco ai ragazzi.

Agi si lanciò fuori dalla porta della stanza. Riuscì a vedere con la coda dell’occhio suo padre che teneva a bada altre due mostruosità, ma non poté capire se fosse ferito o meno.

Era quasi arrivato all’uscita che dava sulla stalla quando sentì uno strattone al braccio. Si voltò e vide che uno degli attaccanti aveva afferrato Tessa per una spalla. L’essere era completamente avvolto da stracci pesanti, di colore nero, o almeno questo sembravano, dato che era ben difficile vedere in quelle vesti un qualche tipo di abito. Inoltre aveva sia il capo che il volto coperti da una specie di fusciacca. Solo gli occhi rimanevano scoperti, rossi come il fuoco. La mano che aveva afferrato la ragazza aveva dita ossute, la pelle grigia, come quella di un cadavere rimasto troppo tempo nel fiume in cui era affogato. Era rugosa e tuttavia dura come il cuoio.

Il ragazzo cercò di colpire il polso con la daga, ma la creatura si girò fulminea e parò con una spada sottile di colore nero. Allora Agi lasciò Tessa, si abbassò e cercò di colpire la caviglia del demone. Per quanto incredibile fosse, infatti, era ormai chiaro che la ragazza avesse ragione: quelli non potevano essere altro che demoni. Lo spesso panno che scendeva sulle gambe del mostro, tuttavia, deviò il colpo, troppo debole per fare un qualche danno. Il ragazzo allora rotolò di lato e si rialzò rapidamente dall’altra parte della stanza, rimettendosi in guardia. Suo padre gli aveva insegnato che quando si combatte una buona regola è quella di muoversi sempre, non farsi mai trovare dove l’avversario si aspetta che tu sia. Ma l’essere, anziché cercare di colpirlo si girò verso Tessa, la sollevò sopra la testa e gliela lanciò addosso. Il ragazzo, invece di schivarla, cercò di afferrarla per attutire l’impatto ma fu un errore: con quella mossa il demone li aveva messi fuori combattimento tutti e due. Agi lo capì subito, ancor prima di aver deciso di non spostarsi, ma non poteva lasciare che Tessa colpisse il muro: si sarebbe senz’altro rotta l’osso del collo. Più tardi Agi desiderò che fosse successo, ma in quel momento l’unico suo pensiero fu di salvare la ragazza.

Intanto nell’altra stanza il rumore del combattimento si era fatto più intenso. Dovevano essere arrivati altri demoni, ma Agi aveva già abbastanza problemi a salvare la pelle di Tessa e la sua. Non c’era tempo di pensare ai genitori. Se la sarebbero cavata: in fondo se l’erano sempre cavata. Mentre cercava di liberarsi del corpo di Tessa, svenuta, vide il mostro sollevare la spada sopra di lui come se fosse un pugnale. La creatura teneva l’elsa con entrambe le mani, preparandosi a calarla di punta verso la sua testa. Il ragazzo rimase immobile, quindi si mosse all’ultimo momento quel tanto che bastava per evitare il colpo, come gli aveva insegnato il padre.

Guarda la lama del tuo nemico. Non chiudere gli occhi, mai! Gli diceva ogni volta che combattevano. Spostati solo quel tanto che serve e non perdere mai il contatto con l’avversario.

La lama gli sfiorò la guancia senza ferirlo e si incastrò fra due pietre del pavimento. Agi approfittò di quell’insperato colpo di fortuna per scivolare da sotto la spalla destra di Tessa e lanciò la sua daga verso il volto del mostro. Sapeva bene che non si dovrebbe mai lanciare l’unica arma che si ha, ma il demone era più forte e così decise di tentare il tutto per tutto, di prendere tempo. Ebbe più fortuna di quanto sperasse: la lama, corta ma pesante, ben bilanciata, colpì il demone all’occhio sinistro provocando una profonda ferita. Il mostro lanciò un ululato tremendo e si portò le mani al volto. Agi si voltò verso Tessa ma lei era ancora a terra, tramortita. Non ce la farò mai a portarla di peso, è più grande di me, pensò. Allora raccolse velocemente la lama nera che il demone aveva lasciato cadere e si girò verso la creatura.

L’elsa era fredda, quasi gelida. Sentì come un brivido nelle ossa. L’intera spada sembrava fatta in un unico pezzo, dal manico alla punta. Non era metallo ma uno strano materiale nero, lucido come il vetro e duro come l’acciaio ma molto più tagliente. Gli bastò infatti spingere la lama verso il suo avversario per sentirla penetrare facilmente nel corpo, recidere tendini e muscoli, spezzare persino le ossa, fino a uscire dall’altra parte, dopo aver trapassato cuore e polmone. L’ululato si trasformò in un rantolo rotto di sorpresa. Il demone abbassò di colpo le mani, si irrigidì, tremò un paio di volte e quindi cadde all’indietro. La spada uscì come se il suo corpo fosse stato fatto di cera. Agi fissò la lama stupito: era pulita; non c’era una sola goccia di sangue sulla lama.

Quasi nello stesso momento si sentì un grido provenire dal salone:

– Rupert, nooooooo!

Era Beth.

– Madre! – gridò Agi. Si lanciò verso la porta in tempo per vedere suo padre cadere trapassato da due lame nere, una al collo e l’altra al fianco. Il corpo tremò un paio di volte, quindi si inarcò all’indietro e si irrigidì mentre i demoni estraevano le spade dalla carne.

Beth si scagliò come una tigre verso gli assalitori ma un demone enorme, grande almeno una volta e mezza gli altri, che quasi toccava il soffitto, la colpì alle spalle con una pesante ascia. La lama penetrò a fondo, spaccando la spina dorsale della donna, che crollò in avanti sull’assito con un tonfo sordo.

Era troppo per Agi. Non capì più nulla. Si girò di scatto e cominciò a correre, aprì la porta sul retro e si lanciò verso la stalla. Non c’era tempo per sellare i cavalli e senza redini non sarebbe certo riuscito a cavalcare. Sapeva che i Romài cavalcavano senza sella e senza finimenti ma lui non ci aveva mai neanche provato. Così superò la stalla a piedi e si diresse a nord. Poi, passata la cresta del colle, scartò a est, verso il torrente, e corse rapido lungo il greto per almeno una stara. Non incontrò demoni e non si voltò a vedere se lo stessero inseguendo. Sapeva dove andare. Superò il bosco e si diresse verso una vecchia quercia che svettava isolata in mezzo a un campo di segale. Lì, tra le radici nodose, si apriva una buca. Era l’ingresso delle caverne che Agi aveva scoperto nel primo pomeriggio. Il giovane si lanciò in avanti, strisciando e spingendo con i piedi, strizzando gli occhi e sputando la terra che gli entrava in bocca. Continuò così finché non scivolò sul terreno bagnato, per ritrovarsi in una fossa in fondo al cunicolo. Era arrivato in una grotta più ampia, alta quasi quanto lui e larga almeno otto braccia. Si appoggiò con la schiena alla parete fredda e umida, cinse le ginocchia con le braccia e cercò di rallentare il respiro. Gli ci vollero almeno una decina di minuti prima di riuscire a respirare di nuovo normalmente.

Solo allora si ricordò di Tessa, e pianse.

Ebook disponibile

Acquistalo subito su uno dei seguenti negozi online: