Se Joanne Harris aveva già frequentato la mitologia nordica con Le parole segrete e Le parole di luce, romanzi in cui al fianco degli esseri umani si muovono dèi quali Odino e Loki, con Il canto del ribelle la scrittrice s’immerge totalmente nel mondo degli Æesir. Il protagonista in questo caso è Loki, il Burlone, il Padre delle Bugie, colui i cui molteplici nomi sono tutt’altro che lusinghieri.

Il perché di questa cattiva fama lo spiega Loki stesso all’inizio del libro: è colpa della Versione Ufficiale, che narra gli eventi dal punto di vista di Odino. Il canto del ribelle perciò fornisce una diversa versione di quanto accaduto, che il narratore stesso definisce Il Vangelo di Loki o, più brevemente, Lokabrenna.

Quanto è narrato in queste pagine, dall’origine del mondo dal fuoco e dal ghiaccio fino alla morte degli dèi nel Ragnarok, è già noto a chiunque conosca le vicende di Æesir e Vanir, ma il cambio del punto di vista è interessante. Loki è il Padre delle Bugie, questo non va dimenticato, ma supponendo di poter credere al narratore il ribaltamento di prospettiva mostra come uno stesso episodio possa avere un significato completamente diverso se osservato da un’altra angolazione. Anche perché, come ammonisce Loki, “le parole sono quanto rimane quando tutte le azioni sono state compiute”, e se chi ha l’ultima parola vuole mettere in cattiva luce qualcun altro non ha difficoltà a farlo.

Il libro è suddiviso in una serie di capitoli definiti Lezione, che spiegano perché non bisognerebbe mai fidarsi di un ruminante, di un saggio o, se è per questo, di nessuno. È l’unico modo per non ricevere spiacevoli sorprese, anche se questo non significa riuscire a evitare i problemi. Del resto se il percorso narrato da Loki inizia nella Luce e, attraverso l’Ombra e il Tramonto, si conclude nel Crepuscolo, significa che anche qualcuno come lui, abituato a improvvisare e incredibilmente pieno di risorse, non sempre riesce a ottenere ciò che vorrebbe.

Il tono della Harris è brillante, la sua storia è guidata dal semplice desiderio di scherzare, dalla (finta?) ingenuità del protagonista e dall’incomprensione di coloro che lo circondano, fino al punto che gli scherzi diventano troppo grandi perché lo stesso Loki riesca a porvi rimedio e la situazione gli sfugge di mano. Peccato solo che il personaggio sia troppo carico e così pieno di sé da diventare a volte caricaturale. Se la prima volta che dice “Okay, sparatemi. Salta fuori che…” per giustificare qualche comportamento non proprio corretto è divertente, la decima volta che lo fa non è solo un’inutile ripetizione, suona anche falso.

Quello che resta è un susseguirsi di scene umoristiche, un tono irriverente che da un certo momento in poi stride con il drammatico concatenarsi degli eventi e la consapevolezza che per quanto con queste pagine si possa sorridere e allo stesso tempo riflettere sulle diverse angolazioni con cui può essere narrato qualsiasi episodio, la mitologia norrena è un’altra cosa.