DHAKI

Ci sono soldati fieri del proprio dovere e soldati che, semplicemente, obbediscono.

Dhaki era orgoglioso di appartenere alla milizia cittadina. Il cuoio della divisa era parte di lui proprio come il respiro, la marcia, le la-mentele del suo compagno di ronda.

«Ma perché Fossa Cieca?», bofonchiò Sayid. Robusto, altezza media, un volto piatto con un ciuffo ribelle sugli occhi e la lingua affilata. «Sono assillanti. Rumorosi. Sudati!».

Affilatissima.

Dhaki era il solo a sopportarlo. Era anche il suo migliore amico.

«Diamine, Sayid. Sei peggio di uno di quei pappagallini che piacciono tanto a corte».

Non che avesse tutti i torti, comunque. Quando c’era da pattugliare i bassifondi mandavano sempre la milizia cittadina. E, tra quelli della milizia, sempre lui e Sayid.

A Dhaki, però, non dispiaceva. Guardò l’immenso oceano di palme, laghi e solidi mattoni che racchiudeva lo splendore e la decadenza di Ultima Oasi. Nel mezzo, come un tesoro sparso su un cumulo di sabbia, Iram at al-’imad. Con il suo miscuglio di stili architettonici e di colori, tra cupole dorate, edifici bianchi, tendoni, bancarelle, torri.

La Città delle Mille Colonne.  Dhaki trasse un respiro profondo mentre un sorriso gli increspava le labbra. Furono le proteste di Sayid a riscuoterlo.

«… E dovrò lavarmi per giorni».

«Allora fatti coraggio», lo distrasse Dhaki, puntando il mento in avanti.

Dal punto in cui si trovavano cominciava un labirinto di vicoli. Una brezza tiepida s’incanalava in ogni spiffero, fischiando. Di tanto in tanto, però, cessava. Fu in uno di questi momenti che i rumori della città li travolsero.

Durante gli anni della milizia, i due giovani avevano visto quasi tutti i quartieri, a Iram li chiamavano Colonne, ma Dhaki doveva ancora trovare gente tanto chiassosa quanto quella che li attendeva, tra bambini e mamme che li rimproveravano, sgualdrine che attiravano i passanti offrendo loro morbidi abbracci e uomini che mercanteg-giavano in risposta senza alcuna vergogna.

Gli adoratori del Sole predicavano dai templi: l’aria recava le loro litanie sul mondo morto a tutte le ore. Ciò nonostante, altri sapevano attirare ancora più attenzione, magari inghiottendo carboni ardenti, duellando con bastoni infuocati, danzando tra gli scorpioni. Il pub-blico rimaneva a bocca aperta, lanciando monete in aria, mentre scal-tri tagliaborse si prendevano il resto in silenzio.

Tutti sembravano dedicarsi agli affari nel maggior baccano possibile. Dhaki ascoltò le false promesse di almeno tre venditori assieme, il piffero sgangherato di un musicista di strada, il tono prepotente con cui un uomo pieno di tic nervosi litigava con se stesso. Quello era il popolo che riempiva le strade di Iram. Il tempo gli aveva insegnato che non lo si poteva cambiare, soltanto conoscere. Proseguirono fino a quando le gambe non pretesero una sosta. Dhaki e Sayid si fermarono nella Contrada del cuoio, dov’era solita rifornirsi la milizia.

Una fontana era stata presa d’assalto da un’armata di bambini che giocava alla guerra. Avevano bastoni per spade e corazze assemblate con scarti di pelle, utilizzavano coperchi di vecchi barili come scudi, ma quante se ne davano! Le loro urla erano assordanti nonostante Dhaki e Sayid indossassero gli elmi.

«Fateci passare!», gridò un marmocchio, scivolando in mezzo a loro. Si era dipinto lo scudo, la faccia e gli stracci di un rosso ancora gocciolante, inseguito da cinque o sei uguali a lui che pestavano i piedi sollevando spruzzi d’acqua tutt’attorno.

«Non è il figlio del macellaio all’angolo?», ridacchiò Dhaki senza bisogno di conferme. Sayid si stava fissando il gomito. Arricciò il naso.

«Sangue-di-porco?», scandì.

«C’è di peggio, no?», Dhaki sapeva bene quanto lui che da piccoli avevano fatto ben altro. Avevano spade ed elmi di ferro, loro. Guai a sbarrargli il passo!

Pareva proprio che non esistesse riposo, là. Con un sorriso che non si azzardava a svanire, Dhaki andò incontro al flusso di abitanti, seguito dall’amico. Riconobbe qualche brutto ceffo che, vedendolo, cambiò direzione.

I ragazzini, al contrario, li rincorsero. Sciamavano in mezzo agli adulti come serpentelli sfrontati scappati dalla cesta di un fachiro.

Erano sul punto di finire loro addosso. All’ultimo, però, si divisero: metà dei mocciosi barricata dietro di loro, l’altra che si disperdeva nella direzione opposta, voltandosi indietro.

«E non tornate più!», gridò alla marmaglia vestita di rosso un mo-nellaccio, tutto riccioli neri. Aveva fatto un passo avanti, piantando i piedi davanti a Dhaki. Sul retro della corazza, una lanterna stiliz-zata con poche dita di bianco.

Il simbolo della milizia cittadina.

A Dhaki si riempì il cuore di orgoglio. «Ben detto!», urlò, non senza attirare le occhiate della gente al lavoro.

Il figlio del macellaio, però, non ci stava. «La prossima volta il cattivo lo fa qualcun altro!».

«Ti arrendi così?!», protestò Sayid. «Le forze elette dell’impero non si arrendono mai, torna indietro!».

Il ragazzino era già sparito.

Dhaki si congedò dal miliziano provetto scompigliandogli i capelli.

«Ahi-ahi», bisbigliò a denti stretti Sayid. «Se lo sapessero le forze elette… l’Ordalia non si farebbe scrupoli».

Dhaki si guardò attorno. «Noi non glielo diremo».

Le forze elette dell’impero non erano ben volute nei bassifondi: avevano fama di soldati infallibili, ma troppo rigidi per trattare con i poveri. I miliziani erano più tollerati: sorvegliavano le bande or-ganizzate, chiudendo un occhio davanti ai furti minori. L’unico problema, al massimo, era la perdita di una moneta o due.

“Sempre meglio di altre bocche da sfamare” .

«Avrei dovuto restarmene nei quartieri ricchi: la Corte a tre punte, Colonna della Sorgente, Punta dello scorpione», riattaccò Sayid. «Niente fango. Niente frustate rumorose agli asini. Niente sangue di porco che t’inzuppa il cuoio. Niente…».

«Niente di niente, Sayid. Ho capito».

L’amico sollevò le mani al cielo, improvvisando una visione mi-stica. «La pace!».

Tutto il contrario del luogo che dovevano raggiungere: Fossa Cieca, appunto.

La loro meta prendeva il nome dalla vecchia arena: una muraglia circolare fatta di enormi mattoni cotti al sole. Da anni, il sultano aveva fatto sigillare le porte con battenti di ferro. Anche se nessuno la utilizzava più, il mondo circostante era più vivo che mai.

Dhaki e Sayid furono aggrediti da ambulanti che offrivano le merci dalle cassette appese al collo; cacciatori tribali che tenevano in mano spiedini di lucertole arrosto; carovanieri occidentali caduti in disgrazia che non avevano perso la voglia di fare affari; mendicanti che giravano in tondo pizzicando i figli per farli piangere.

Dhaki proseguì con una smorfia d’imbarazzo. Avrebbe voluto fare di più.

Tende marroni e tappeti impolverati circondavano l’arena. Intere famiglie erano sedute a terra. Altri saltellavano come scimmie, di fianco a mucchi di ciarpame ossidato. Erano mercanti troppo poveri, troppo poco affidabili, per guadagnarsi un posto migliore attraverso il lavoro onesto. Gli altri abitanti del quartiere passavano il tempo nei palazzi affollati, nelle locande chiassose, nei postriboli mai abbastanza appartati.

Con tutte quelle persone, la strada si faceva più stretta. Dhaki e Sayid camminavano a stento l’uno di fianco all’altro.

Sayid rivolse al compagno un’occhiata perplessa.

Dhaki alzò lo sguardo verso quel mare di facce.

Ci trovò la paura.

Alla distanza di un tiro di freccia, la strada era bloccata da una fila di guardie con gli scudi sollevati. Non erano semplici miliziani.

Ordaliani.

Veri, stavolta. Vere erano le cotte di maglia sotto il rosso dei mantelli. Vero l’acciaio delle spade. Dhaki li osservava in silenzio. Non era il solo. Stavano trattenendo tutti il fiato.

Il piccolo esercito di Contrada del cuoio non era voluto mancare all’appello. Confabularono tra loro, finché qualcuno alzò la voce sbraitando e intimando ai soldati di andarsene.

“Si faranno ammazzare” .  Dhaki cercò di ignorare l’eccitazione che provava la sua anima di ragazzo: aveva sempre voluto fare parte dell’Ordalia. Ma ora gli serviva il coraggio dell’uomo.

Anche se non aveva ancora compiuto diciotto anni.

Gli occhi di Sayid cercarono i suoi. Dhaki non fece in tempo ad aprire bocca che un monello tirò qualcosa contro i soldati: l’oggetto colpì uno degli scudi ed esplose in una nube rossa.

Dhaki s’irrigidì. Vide un marmocchio alto la metà di lui leccarsi un dito, sollevarlo in alto e annuire. Fischiò con le dita. La piccola armata estrasse di nuovo qualcosa da sotto gli stracci. Tutti insieme, i ragazzini scagliarono contro gli ordaliani i loro proiettili. Un’altra nube di polvere rossa e gialla si abbatté sul legno dipinto degli scudi.

A sua volta, il piccolo cacciò le mani in tasca mentre gli ordaliani tossivano. Tirò fuori un involucro grande quanto un pugno. Dhaki glielo prese di mano nell’istante in cui prendeva la mira e lo esaminò rigirandoselo tra le dita. Stava trattenendo il fiato. Lo liberò lentamente.

«Non è un globo schizzante», disse a Sayid, con le lacrime agli occhi.

Anche l’amico stava piangendo. Quei sacchettini di tela grezza riempiti di spezie erano terribili. Perlomeno la magia non c’entrava nulla.

«Tu!», lo accusò qualcuno in fondo alla strada.

Dhaki nascose la mano dietro la schiena. Era un ordaliano!

Non ce l’aveva con lui. Una figura era sbucata da uno dei pochis-simi bazar di Fossa Cieca. Si guardava intorno come se ne andasse della propria vita. Indossava un berretto e una tunica dello stesso color zafferano: lunga, inusuale, con le maniche dai risvolti dorati.

Abiti vecchi di anni.

Dhaki aguzzò la vista. “Un momento

Sottobraccio, rotoli di pergamene.

“Non è possibile!”, pensò.

Il marmocchio davanti a lui inspirò l’aria profondamente e diede voce ai suoi pensieri più spaventosi.

«Un magooo!».

Teppistelli e soldati schizzarono sull’attenti; mercanti e canaglie arretrarono, poi nuove facce sbucarono dalle retrovie.

“Incursori”. Dhaki li riconobbe al volo. “Le forze elette più temute di tutta Iram at al-’imad!”.

«Via!», gridò il figlio del macellaio alla piccola armata.

Dhaki si sentiva spingere da ogni parte. Quando rialzò la testa, il mago non c’era più. «Dov’è andato?!», chiese a Sayid.

Quando l’amico puntò un indice alle sue spalle, Dhaki si lanciò subito all’inseguimento.

«Aspettami!».

Anche il mago non aveva perso un attimo. Il berretto oscillava in mezzo a un mare di teste che si allargava e richiudeva in un attimo.

Si muoveva in fretta, per via del terrore che avevano di lui.

«Per di qua!», Dhaki imboccò un vicolo, senza badare agli incursori che passavano oltre. Il suolo traboccava di rifiuti. Appena dopo una ventina di passi, il percorso terminava con una porta chiusa da un catenaccio arrugginito.

Dhaki non si arrese. Accostò un orecchio alla porta. La spalancò con un calcio. Polvere sospesa nell’aria, puzza di escrementi, rumori.

Era un pollaio.

«Vorrai scherzare», fece Sayid dietro di lui.

«Faremo prima!».

Borbottando un’imprecazione, il compagno lo seguì.

Dhaki sorrise. Alla vista degli intrusi, gli uccelli spiegarono le ali.

I loro versi riecheggiarono in tutto il pollaio finché la proprietaria non venne fuori con un rastrello in mano.

Dhaki, però, si era già arrampicato sulla tettoia. Le rastrellate se le beccò tutte Sayid mentre l’amico cercava di tirarlo su.

Erano sui tetti: videro il mago percorrere una serie di vicoli e poi ritornare sui propri passi. Dhaki conosceva bene quella sensazione: c’erano voluti tre anni per orientarsi. Anni in cui aveva portato messaggi da una guarnigione all’altra, sorvegliato le spie delle casate mercantili, trattato affari non proprio puliti sotto co-pertura. Le strade dei bassifondi erano le sue  strade; così pure gli angoli meno frequentati: i granai pieni di gatti, gli avamposti spazzati dal vento, le case di piacere dal soffitto smaltato.

Il fuggitivo si accorse di loro. Il tempo di due battiti di ciglia ed era già sparito nel chiaroscuro della fucina di un fabbro.

«Dannazione. Sayid!», lo esortò Dhaki, calandosi giù con una fune abbandonata.

«Di nuovo?», ansimò lui.

Gli abitanti dei bassifondi facevano favori ai ladri lasciando pas-serelle e appigli sui tetti: Dhaki non era mai stato così felice di aver lasciato correre. La porta della fucina era rimasta aperta. Entrò.

Fiamme e buio. Ascoltò i rumori cercando di calmare il respiro.

«Ci riposiamo?», sbuffò Sayid, lasciandosi crollare su una grossa incudine.

Dhaki era sul punto di arrendersi quando percepì una maniglia girare. Nel chiarore dello spiraglio rimasto aperto, intravide il volto del fuggitivo.

«Sayid!», scattò.

«E basta!».

Stavolta, però, il mago era vicinissimo. Era finito nella Contrada del cuoio. Dhaki conosceva ogni ciottolo meglio dei corridoi di palazzo.

Venti passi. Riusciva a contare le frange che penzolavano dal bordo della veste.

Dieci. Poteva quasi udire il suo respiro.

Cinque passi. “Ancora uno sforzo!”, pensò.

Tre passi. “Ci sono!”.

Gli saltò addosso.

«Fermo!», ordinò Dhaki premendogli il braccio sinistro contro la gola.

Non che il mago potesse fare altrimenti. L’assalto gli aveva moz-zato il fiato. Faceva fatica a respirare.

«Non… uccidermi!», farfugliò.

Nel catturarlo, i rotoli di pergamena del mago si erano sparpagliati tutt’intorno. Dhaki aspettava l’arrivo di Sayid. O almeno ci sperava.

«Perché scappavi? », domandò nel frattempo.

«Tu perché m’inseguivi?»

Quella domanda lo irritò. «L’Ordalia non ci andrà più leggera di me, mago!».

Gli ordaliani, il sultano, la corte. Persino il popolo. Tutti odiavano i maghi. Dhaki conosceva la storia: vent’anni prima, il prezzo per salvare Ultima Oasi dal sole era stato altissimo. Pur di ottenere favori, i 15

maghi avevano rischiato di prosciugare tutte le risorse vitali fuori e dentro l’impero. Da allora non erano più i benvenuti.

«Io…», incominciò il fuggitivo.

«Che cosa contengono quei rotoli?», lo incalzò Dhaki.

«Io non sono un mago!». Il prigioniero cercò i suoi occhi. «Posso spiegare».

Dhaki allentò la morsa. Le dita corsero all’elsa della spada.

«Spiega».

Si rialzarono: il miliziano con rapidità, l’altro stringendo i denti. I vestiti gli stavano larghissimi. Visto così da vicino, sembrava un ran-dagio a digiuno da giorni. I capelli arruffati, le occhiaie, la barba a chiazze.

Aveva perso una scarpa. Dhaki gli permise di rimettersela.

«Sono progetti». Un lieve cenno ai rotoli per evitare movimenti bruschi. «Ero un assistente».

Sayid li raggiunse in quel momento, le mani premute sulle ginocchia mentre ancora annaspava. «Mai… più… a Fossa Cieca», si ri-promise.

Dhaki era più interessato alle parole dello sconosciuto. Raccolse una pergamena. Tracciati in una grafia elegante, c’erano bozzetti dalle forme bizzarre. Gigantesche invenzioni di legno e particolari di componenti più piccoli, un elenco di materiali. E calcoli mate-matici.

«Li hai fatti tu?», lo interrogò Dhaki, ora con più interesse che durezza nella voce.

«Ho vissuto nella corte del sultano», ricominciò lui, facendosi coraggio. «Cercavamo di oscurare il sole, ma non eravamo tutti maghi come crede la gente. C’erano anche astrologi e astronomi.

Studiosi. Religiosi. Inventori! Io lavoravo a quelle macchine».

Si zittì. Un centinaio di persone si era accalcato intorno a loro durante la breve conversazione. Gli incursori che erano sulle sue tracce si stavano infiltrando fra loro. Erano in due. Il loro sgomitare, accompagnato da occhiate infervorate, provocava al massimo qualche borbottio. Le loro lame scintillavano.

«Arrivano», bisbigliò Sayid con la bocca storta.

Dhaki seguiva i loro movimenti con una certa attenzione. Gli abitanti volevano assistere a quell’evento insolito tanto quanto lui: di 16

rado gli incursori si addentravano fino ai bassifondi e si mostravano così a lungo.

L’assistente dell’inventore tremava.

«Tu vieni con noi!», gli ordinò il più anziano. Pupille grigie, folta barba nera.

«Non avevamo finito», gli fece presente Dhaki con il tono più pacato possibile.

L’incursore lo squadrò a viso duro. L’acciaio dei suoi occhi avrebbe potuto tagliare una persona in due.

Dhaki si aspettava un minimo di riconoscenza: non era forse stato lui a catturare il fuggitivo? Mantenne la calma. Non si era mai avvicinato tanto a degli incursori, né aveva mai avuto l’occasione di studiarli. Erano spettri: colpivano in fretta e tornavano nella fortezza dell’Ordalia fino a nuovo ordine.

“Quello che succede nel Maglio resta nel Maglio”. Un detto di Iram.

Indossavano una divisa di cuoio anche loro, ma con placche me-talliche di rinforzo sulle spalle, sui gomiti, su avambracci e ginocchia. Al posto della lanterna bianca della milizia, dipinta sulla schiena, che doveva fare luce sui misfatti di Iram, un sole sul petto.

Scheggiato. Accecante.

«Resta al tuo posto, miliziano. O portiamo via anche te».

«Principe». Sayid mostrò i denti. «State parlando con il principe di Ultima Oasi».

Dhaki restò immobile. Non gli piaceva ricorrere al proprio li-gnaggio per tirarsi fuori dai guai, eppure…

L’ordaliano rimasto in silenzio guardò l’altro come per dirgli: “è la verità”.

L’espressione del veterano non cambiò, il tono della voce sì. «Non gli faremo nulla. Il maestro della guerra vuole solo parlare».

Gli spettatori erano aumentati. Riempivano ogni spazio vuoto, bra-mosi di assistere, anche a costo di litigare. Dall’alto, sui balconi e sui tetti, altre facce si sporgevano sopra la massa. I teppistelli di Contrada del cuoio osservavano la scena dalla fontana con tutta l’aria di voler replicare il danno causato a Fossa Cieca. Se finora Dhaki si era sentito orgoglioso per la cattura, ora provava un senso di disagio.

Volontariamente o meno, quella massa indistinta cominciava ad 17

aumentare troppo. L’ordaliano più vecchio arricciò le labbra in un ringhio, la mano pericolosamente vicina all’elsa della spada. «Indietro!

Pensate forse che non tornerò per voi? Per te?», fissò il più vicino. «E

per te. E per te?» Poi alzò lo sguardo su Dhaki. «Allora, principe. Abbiamo finito qui oppure no?»

Controvoglia, annuì.

L’incursore più giovane allungò una mano verso la pergamena…

L’assistente dell’inventore si mise in mezzo, l’ordaliano anziano che già lo strattonava per la tunica.

«Non è quello che c’è scritto il problema», svelò senza più esitare,

«ma quello che non  c’è!».

Gli ordaliani lo portarono via, lasciando Dhaki da solo con quel discorso lasciato a metà. E tanti dubbi. E troppi enigmi. Il principe spostò l’attenzione verso la Corte a tre punte, sopra le miriadi di lampade che illuminavano a giorno la Città delle Mille Colonne, mentre le giubbe di cuoio con il sole scheggiato sparivano e il via vai di persone, con i loro colori, odori, rumori riprendeva lentamente vita.

Nell’aria, cenere e cenere intrappolata nel vento.