Axel ondeggiò alla ricerca di un passo stabile. La roccia, aguzza e irregolare, minacciava come una lama seghettata la carne callosa dei suoi piedi vestiti del poco cuoio dei sandali. Ogni palmo di quel declivio assolato sembrava nascondere l’insidia di una fenditura occultata dalla vegetazione o da una propaggine di pietra traditrice. Si aiutò con le braccia allargate, quasi saltellando da un punto all’altro della salita, invidiando la disinvoltura dei caproni dalle corna a scimitarra che spesso vedeva arrampicarsi su per le chine più impervie con la leggiadria di un cigno nello stagno. Stambecchi, così l’aveva chiamati qualcuno, forse Mutio. Axel aveva le unghie dei piedi lunghe, spesse e frastagliate (specialmente quelle degli alluci), ma niente che potesse paragonarsi all’efficacia delle zampe ungulate di quei caproni quando si trattava di salire e scendere per i pendii. E le sue caviglie, magre e pelose, erano fin troppo esposte al rischio di spezzarsi in una buca.

Il miagolio alla sua destra gli rammentò come gli stambecchi non fossero l’unico termine di paragone a umiliare la sua andatura goffa. Unghialunga applicava il proprio passo felpato alle asperità della montagna così come faceva ad ogni altra superficie solida. Si soffermava ad annusare gli arbusti e i licheni che costituivano la flora predominante a quelle altitudini. Il grosso gatto selvatico rovistava fra i cespugli alla ricerca di qualche bestiola da cacciare. Spesso sostava a strusciarsi alla roccia ruvida o a stiracchiarsi al sole del meriggio. Faceva caldo lassù e Axel, povero di adipe ma ricco di peluria, sudava abbondantemente. Le ultime piovose settimane di primavera non erano ancora lontane ma l’estate, sin dai suoi primi luminosi giorni, stava dandosi da fare a cancellarne il ricordo. Axel volse la faccia al sole e sentì la pelle rosolare al suo tocco cocente.

Il grugnito di Moonz, una decina di metri più su, lo spinse a riprendere l’arrampicata. Il mezz’orchetto sostava accovacciato nei pressi di un folto cespuglio aghiforme, che esplorava con le dita grifagne. Ne spezzò un rametto e lo porse ad Axel che lo esaminò con interesse. La Maestra Galèria aveva provveduto ad educare i suoi discepoli nella materia erboristica non soltanto in merito alla flora della Foresta di Ebor (l’unica peraltro con cui Axel avesse avuto per anni diretta confidenza) ma aveva elargito loro numerosi insegnamenti anche a riguardo di parecchie specie vegetali caratteristiche di ambienti differenti. Quello spulciato da Moonz era indubbiamente un cespuglio di pino mugo, un comune arbusto rupestre da cui si poteva estrarre un olio utile per una serie di preparati che Axel aveva intenzione di produrre. Fece un cenno d’assenso a Moonz e assieme si misero a riempire un sacchetto di tela con qualche mazzo di rametti, da aggiungere a quelli pieni di ranuncoli e genziane già raccolti in precedenza. Unghialunga li osservò per un po’, prima di decidere che una coppia di taccole in volo sulle loro teste rappresentava un diversivo più stimolante, specie nel momento in cui avessero deciso di scendere a terra. Gli uccelli, forse consci del famelico interesse del felino, planarono pigramente a pochi metri dal pendio, salvo poi riprendere quota e allontanarsi a valle.

Una volta finito di raccogliere i rametti di pino mugo, Moonz rivolse un’occhiata interrogativa al compagno. Axel scosse la testa, intuendone il pensiero.

– S’è fatto tardi, – disse, – torniamo indietro.

Le discese, aveva appreso Axel, erano un affare più complesso delle salite. Ad arrampicarsi si faceva una gran fatica, era vero, ma il rischio di spezzarsi una gamba o rotolare in un dirupo, quando si tornava indietro, era senza dubbio più concreto. E lo sforzo che lui ci metteva per impedire il peggio gli snervava le gambe.

Ridiscesero verso valle soddisfatti per il raccolto. Axel non mancava mai di guardarsi intorno durante il cammino, pronto a spiccare quel fiore o quella bacca, quando pensava che potesse tornargli utile come ingrediente officinale. La meraviglia che spesso lo coglieva nel rimirare le molteplici manifestazioni della natura attorno a sé, così diversa e al tempo stesso familiare da quella in cui era abituato a immergersi, lo rendevano simile a un bambino perduto in un reame di balocchi. Contemplava animali e piante e si smarriva quasi negli scorci di quel paesaggio a tratti tanto imponente da mozzare il fiato. Moonz supportava le sue ricerche erboristiche e condivideva l’entusiasmo della vita selvaggia, pur senza cedere al continuo stupore. Il mezz’orchetto ne aveva vissute tante, anche troppe, per potersi sorprendere alla vista di uno stambecco in equilibrio impossibile su uno sperone di roccia.

La compagnia si era sistemata in un boschetto di faggi al riparo di un avvallamento secondario del valico che da due giorni stava attraversando. I somari erano stati provvisoriamente sgravati dei bagagli e lasciati ad abbeverarsi alle acque gelide di un minuscolo ruscello. Qualcuno si era allontanato con lo scopo di cacciare un po’ di carne fresca per la prossima cena; Axel e Moonz ne avevano approfittato per inerpicarsi sul pendio alla ricerca di piante selvatiche ed erbaggi vari.

Incrociarono i reduci della battuta di caccia ai margini del boschetto. Il Gheppio salutò Axel con una smorfia sul viso cosparso di cicatrici, il Rosso gli menò una manata sulla spalla e strizzò un occhio a Moonz.

– Trovato niente di utile? – domandò Uldrich.

– Qualcosa. – rispose Axel.

E qualcosa avevano rimediato anche il Rosso e il Gheppio: una coppia di lepri, qualche volatile assortito e persino una grassa marmotta. La smorfia di Axel non fu meno arcigna di quella del Gheppio. Non aveva problemi a nutrirsi di carne e pesce, tuttavia non amava affatto trovarsi al cospetto di un cumulo di piccole carcasse insanguinate quale quello rovesciato a terra dai due cacciatori. Freccia e il Duca si fecero avanti per sbrogliare il mucchio e cominciarono a spennare, spellare ed sviscerare le bestie per la cena; c’era ancora luce sufficiente per altre ore di cammino, ma tanto valeva sfruttare la sosta per cominciare a preparare le carne da arrostire. Axel si limitava a fornire erbe per insaporire le pietanze, lasciando volentieri agli altri il resto. Moonz, di contro, si accucciava spesso ad osservare i preparativi, lustrandosi famelico le sottilissime labbra con la lingua verrucosa. Lui la carne la gradiva anche cruda ma, da tempo aveva scoperto, la cottura e l’aggiunta dei condimenti giusti potevano renderla estremamente saporita.

Axel si appartò per sedersi su un masso foderato di muschio a fare l’inventario delle erbe rupestri di cui in quei giorni si era riempito la borsa e le tasche. Aveva in mente di mettersi presto al lavoro per produrne qualche utile rimedio erboristico ma non riusciva a decidersi da dove cominciare. Il dilemma dapprima lo stuzzicò, infine lo stancò. Rimise le erbe al loro posto e si godette pigramente la frescura sotto la fronda dei faggi. Il Gheppio si era messo a trafficare fra i bagagli nei pressi dei somari alla ricerca di chissà cosa. Il Rosso stava in piedi dietro di lui, a parlargli o a guardarlo, Axel non poteva dirlo poiché Uldrich gli dava la schiena. Mutio si unì ai due, disse qualcosa e poi si accosciò anch’egli a frugare tra le bisacce. Sua moglie Helena venne invece a dare una mano a Freccia e al Duca nello sventramento delle carcasse da cucinare.

Una piccola, operosa brigata, accampata in una macchia nel cuore delle colossali montagne. Il cielo terso e l’aria luminosa incorniciavano splendidamente quel quadretto a suo modo idilliaco, di compagni di viaggio in serena collaborazione. Ma c’erano ombre nel cuore di quegli uomini e di quelle donne e, Axel lo sentiva come una carezza sulla pelle, c’erano ombre all’interno e tutt’attorno a quella compagnia.

Sedevano in disparte, sull’arco di una radice affiorante. Un uomo e un nano. Due forestieri giunti dall’orizzonte di un continente lontano. Prigionieri? A volere essere onesti, si. Non c’erano catene a legargli le mani o i piedi, non c’erano gabbie a intrappolarli. Ma esistono sbarre che l’occhio non vede e, Axel pensava, spesso sono proprio quelle le prigioni peggiori. L’uomo sembrava una statua di legno, la schiena eretta e le mani in grembo. Il suo volto, un’intersezione di tratti squadrati terrea come la morte, non mutava mai la sua inquietante rigidità. Né quando marciava, né quando mangiava, neppure quando dormiva. L’unico tangibile indizio di vita erano i suoi occhi celesti che, immoti un attimo prima, quello seguente potevano dardeggiare come schegge affilate.

Eusebio.

Non parlava praticamente con nessuno, le sue interazioni col gruppo erano minime e passive. Un morto che camminava. Un morto scolpito di muscoli e cicatrici e furia omicida inesplosa. Axel ne aveva paura e sospettava di non essere l’unico. Col nano andava meglio. Si chiamava Rollo ed era l’unico con cui Eusebio interagiva. A differenza dell’energumeno dallo sguardo di ghiaccio, Rollo non sembrava palesare grosse riserve nell’intrattenere rapporti col resto della compagnia. Axel aveva l’impressione che il nano ponesse spesso un freno alla propria esuberanza per rispetto all’inerzia gravida di malanimo del suo compagno. Per il resto, con il suo accento marcatamente straniero, sembrava in grado di trattare qualsiasi argomento gli capitasse di affrontare durante le ore di marcia o attorno al fuoco dei bivacchi serali. Se non parlava, ascoltava, dimostrandosi un ottimo interlocutore quando si trattava di ammazzare la noia del viaggio. Axel tuttavia non si faceva ingannare. Rollo era prigioniero alla stregua di Eusebio e, in quanto tale, niente affatto amico del gruppo. Sapeva sopportare meglio quella cattività priva di ceppi ma, scommetteva Axel, non ne era felice più di quanto lo fosse l’altro. Se di Eusebio aveva paura, di Rollo e della sua ostentata cordialità diffidava dal profondo del cuore.

– La libertà negata, di qualsiasi genere, rende la bestia pericolosa.

Axel trasecolò a quelle parole così vicine e inaspettate. Scattò in piedi dal masso e si voltò nella direzione degli alberi alle sue spalle. Il cervello aveva riconosciuto all’istante la voce frusciante e tanto fece la vista un attimo dopo con la figura accoccolata nella penombra; ciononostante il corpo rifiutò di rilassarsi.

– Ci sono carceri peggiori di quelli che gli occhi possono vedere. – proseguì la voce ribadendo il concetto su cui lui stesso si era poco prima soffermato.

– È vero. – borbottò sentendo finalmente i muscoli della schiena che si scioglievano.

Gli occhi dell'Estraneo scintillarono da sotto la falda del cappello nero. Si spostarono da Eusebio e Rollo seduti da parte per puntarsi direttamente su Axel. – Ma noi questo lo sappiamo e perciò vigileremo. Dico bene?

Axel annuì, soggiogato da quello sguardo diretto. Non fu sicuro d’avere intuito un senso nascosto sotto la superficie delle ultime parole. L'Estraneo era seduto sul tappeto di foglie e pietra ai piedi dei faggi. Si alzò con un fruscio di vesti nere. Axel sentì la soggezione crescere nel petto, come spesso gli accadeva al suo cospetto. Un misto di euforia e timore reverenziale che gli rivestiva la pelle di brividi. Lo aveva sognato talmente tante volte, nelle notti dello smarrimento. Un’ombra che veniva a chiamarlo al morire del sole, quando tutto intorno la luce si spegneva. Lo aveva perseguitato nei sogni per poi giungere di persona a dissipare la confusione. Lo aveva preso per mano, lo aveva convocato a seguire i suoi passi. Lo Shûn, il profeta del Crepuscolo dei Tempi. Parole, titoli, definizioni il cui significato Axel era ancora molto in là dal comprendere. La nuova prescelta incarnazione di un Figlio del Potere, di chi prescelto lo era stato già nel grembo materno. Un eletto fra gli eletti. Eppure Axel, che tremava sotto quello sguardo capace di mettergli a nudo il cuore, riusciva ancora a vedere un uomo davanti a sé. Carne e ossa abbigliati di nero, e anima riflessa nel verde cupo degli occhi.

L'Estraneo gli posò una mano sulla spalla e diede una stretta, breve e decisa. – Le carceri invisibili sono le più difficili da abbandonare. Ma non ha senso smettere di provare.

Si allontanò, lasciandosi dietro un sentore denso di ombra e turbamento.

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