PARTE PRIMA

1

La consapevolezza di sé scaturì improvvisamente, come un lampo nell’oscurità. Nella sua mente fu come un’esplosione dolorosa. Fino a quel momento non aveva ricordato nulla del passato, neppure il suo nome, e quel vuoto che ancora persisteva le procurava un’angoscia insopportabile. Ma sapeva di esistere. 

A poco a poco, fu in grado di riconoscere ciò che aveva intorno, quasi si trattasse di nozioni sepolte e abbandonate nel profondo della sua anima: terra brulla e grigiastra, rocce, alti alberi contorti, cespugli spinosi, carichi di piccoli frutti che sapeva di aver mangiato, e rigagnoli d’acqua melmosa che rammentava di aver bevuto. E poi la pioggia, fitta, incessante, implacabile, sottile come una nebbiolina che mai si diradava.

E l’esistenza di altre creature simili a lei, che strisciavano nell’ombra, che si riparavano dall’acqua, addossate alle rocce, che portavano rozzi abiti di corteccia e di foglie, che come lei non avevano nome né voce, e vivevano in quel nulla senza suoni e senza uno scopo.

Ora qualcosa stava turbando quel mondo, qualcosa di esterno ed estraneo. Forse era stata proprio quell’intrusione improvvisa a riscuoterla, provocando il suo risveglio.

Li spiò, dietro al suo riparo di rocce, e li riconobbe: erano uomini a cavallo, armati e riccamente vestiti, che gridavano e si chiamavano, tenendosi accostati gli uni agli altri per non perdersi nella nebbia. Erano seguiti da altri uomini appiedati, coperti di armature leggere con insegne rosso-dorate.

Le parve che quegli stemmi suscitassero in lei lontani ricordi, ma non le fu possibile spingersi oltre, nell’oscurità della sua mente. 

Il corteo si avvicinava. Vide che tutti quei soldati avevano le braccia insanguinate, e trascinavano molte creature come lei, legate fra loro, che a stento riuscivano a seguire l’andatura, barcollando, dondolandosi, e tenendo sempre il capo chino. A tratti, qualcuno cadeva e si rialzava a fatica. Gli uomini tentavano di sospingerli e di radunarli, ma senza risultato.

Camminavano per pura inerzia, e parevano non avvertire né paura né dolore, né le grida e le imprecazioni. I soldati stessi sembravano affaticati, come se lottassero contro il torpore dei sensi.

Il corteo era arrivato quasi a ridosso delle rocce dietro cui si era nascosta. La vista di quei volti umani le provocò una nostalgia insopportabile. Cercò di nascondersi arrampicandosi sulle rocce, disperata, ma le sue mani deformate e biancastre, dalle dita contorte, non avevano forza sufficiente.

Allora tentò di gridare, ma non poté; non ne sortì che un mugolio sottile, che andò a perdersi nella nebbia, inascoltato.

I cavalieri le stavano ormai passando davanti. Per un istintivo timore si raggomitolò ancor di più tra i massi, senza poter vedere altro che le zampe e le gualdrappe dei cavalli. 

Poi, un grido diverso dagli altri la spinse a sporgersi dal suo rifugio: un soldato a piedi si stava allontanando dal gruppo. Aveva gettato a terra le armi e camminava a passi rigidi, quasi automatici, in direzione opposta al corteo. Un suo compagno spronò il cavallo verso di lui e gli si parò davanti. 

L’altro parve non accorgersene neppure: i suoi occhi, che ora lei vedeva benissimo, si erano fatti opachi, senza luce e senza coscienza. 

Quello sguardo privo di espressione la terrorizzò, tanto che si acquattò in un anfratto, senza smettere di tremare e di gemere. Ma non poté far a meno di continuare a seguire la scena. Il cavaliere stava sferzando il soldato, senza alcuna pietà, nell’intento di farlo tornare in sé: ma questi non pareva avvertire i colpi. Continuava a camminare, sempre con lo stesso sguardo assente.

Un altro uomo a cavallo si staccò dal gruppo: era quello che guidava il corteo, e dalle armi e dall’abbigliamento sembrava il capo. Forse il re.

Si pose di fronte al fuggitivo e gli gridò un ordine. Solo a quel punto l’uomo si riscosse, alzando il viso insanguinato. Il cavallo del re aveva gli occhi bendati, ma proprio in quel momento la benda gli cadde e incrociò lo sguardo del soldato. Nitrendo terrorizzato s’impennò, e la sua ombra fu su di lei, incombente. 

Un chiarore nella nebbia le mostrò per un istante il cavaliere, e le si stampò negli occhi la visione che le apparve insopportabilmente bella e terribile.

Il re era ancora giovane, forte, dallo sguardo profondo e lineamenti perfetti, con lunghi capelli chiari e la corta barba. Né collera, né spavento alteravano la nobile espressione del suo viso. Sotto al mantello rosso, le sue braccia grondavano sangue, per via degli strani bracciali metallici irti di spine che indossava. Ma neppure questo poteva alterare la sua superiore compostezza. 

Non aveva mai visto niente di così estraneo all’ambiente che la circondava, e mai avrebbe potuto ripresentarsi ai suoi occhi una simile magnificenza.

Rimase stupita e attonita, e piena di desolazione, mentre il corteo si allontanava. Poi, con una decisione improvvisa, che non si sarebbe potuta spiegare, senza chiedersi niente e senza capire il perché, uscì dal suo rifugio e li seguì, a distanza.

Re Aarno si abbandonò all’indietro sul suo trono, con espressione perplessa e vagamente incuriosita. Con un cenno infastidito del capo, cacciò via il servo che continuava premurosamente ad assestargli le fasciature delle braccia e le ricoprì con le ampie maniche della sua tunica di velluto, prima di incrociarle sul petto. 

– È stata una spedizione fortunata, mio sire – commentò Emiana, che stava accanto a lui. 

– Non saprei. Questo incidente mi rovina tutto.

– Oh, non badategli, sire. – Emiana arricciò lievemente il nasino in una aggraziata smorfia di disgusto. – Fate… sopprimere quest’essere. Non merita che sprechiate il vostro tempo.

Emiana era l’amante ufficiale del re. Non poteva sposarlo per via di impedimenti dinastici, e non le era consentito di dargli figli. Eppure, il re continuava a tenersela al fianco, rinunciando a ogni degno matrimonio che gli veniva proposto, e negando al regno un erede. 

La voce popolare indicava in lei una strega dell’ovest: sostenevano che teneva legato a sé il re con le sue arti. Eppure, non avrebbe avuto bisogno di inganni e magie per affascinare gli uomini: era alta, sinuosa, sottile come un giunco. Aveva una voce dolce e profonda, e il passare del tempo sembrava scorrerle addosso, senza lasciare traccia. Nessuno avrebbe potuto darle un’età, ma l’aspetto era quello di una fanciulla appena sbocciata. I suoi lunghi capelli neri, sempre sciolti sulle spalle, fermati da preziosi diademi, incorniciavano un viso piccolo di un prezioso pallore d’alabastro, dai lineamenti delicati. Forse il suo naso era lievemente adunco, e le labbra troppo sottili, ma nessuno sarebbe arrivato a notarlo, senza essersi prima perso nell’azzurro ghiaccio dei suoi occhi allungati.

Ma soprattutto non era una donna frivola o vacua: il re teneva in gran conto i suoi consigli, anche se a corte molti avrebbero preferito che non lo facesse, e più d’uno avrebbe voluto allontanare da lui quella troppo ingombrante presenza.

– Potrebbe essere opera di un mio nemico – stava ragionando il re, – prima di sopprimerla, come tu suggerisci, dovrei almeno scoprire chi l’ha mandata e perché.

– Non c’è modo di saperlo. Questi… – Emiana ebbe ancora una smorfia e un lieve tremito di ribrezzo, quando i suoi occhi incontrarono l’essere che stava di fronte a loro – … questi Incappucciati comprendono appena ciò che diciamo loro, e non reagiscono neppure al dolore. Non ne caverete nulla. Eliminarla subito è la soluzione migliore.

– Sembra che tu provi terrore, per queste creature. 

Emiana spalancò gli occhi, indignata.

– Ma che dite? Terrore? È solo che… mi ripugnano. Come a qualsiasi essere umano ragionevole.

– Non hai mai voluto seguirmi nella caccia.

– Vi pare che io sia donna da portare alla caccia?

Si alzò in piedi con femminile indignazione, e il re sorrise, osservando il suo luccicante abito azzurro, le mani sottili, dalle unghie lunghe e curate, i piedi fasciati in scarpine dorate.

– No – ammise Aarno. – Non sembri adatta per la caccia. Non per il tipo di caccia che intendo io, almeno.

Contenta di averlo fatto sorridere, Emiana tornò a sedersi, e ribadì, con fervore: – E allora, smettetela di guastarvi l’umore per questa sciocchezza. 

Stava per dare l’ordine ai soldati, quando, proprio in quell’istante, entrò un uomo già avanti negli anni, alto e vestito di scuro. Solo un impercettibile lampo degli occhi chiari tradì il disappunto di Emiana per quell’arrivo.

– Entra, Arenio – lo accolse il re. – Siediti. Desidero un tuo parere su un fatto piuttosto strano che si è verificato oggi, dopo la caccia.

Il “fatto piuttosto strano” era rimasto per tutto quel tempo inginocchiato in terra fra due soldati: un fagotto scuro e polveroso, immobile come una statua.

“Incappucciati”, così venivano chiamate le creature di Inesistenza. Dovevano questo nome alle tuniche dai rozzi cappucci con cui li coprivano una volta portati fuori dalla loro pianura, perché offendessero il meno possibile gli occhi degli umani, con il loro aspetto ripugnante. 

Il nuovo venuto rivolse un’occhiata all’Incappucciato. Non c’era traccia in lui del ribrezzo di Emiana, né dell’evidente malessere dei soldati.

– Mio sire – disse, con voce profonda – mia signora, sono qui per servirvi.

La donna rispose al saluto con un cenno del capo, contenendo educatamente la sua avversione per quell’uomo.  Arenio si accomodò su un seggio e attese.

– Ripeti il tuo racconto – ordinò il re a uno dei soldati.

– L’abbiamo trovato presso la porta Nord. Non aveva nessun marchio.

– Nessun marchio? Molto strano – disse Arenio. 

Il re annuì. – Già. Così penso anch’io. Non è una cattura della caccia di oggi, perché non era legato. Potrebbe averlo mandato un mio nemico.

– Non per nuocervi direttamente – ragionò Arenio. – Gli Incappucciati sono pessimi sicari, oltre che pessimi servi. Ma potrebbe avere addosso del veleno.

– Perquisitelo – ordinò Aarno.

I soldati eseguirono l’ordine, usando una certa brutalità per vincere l’istintivo disgusto.

– Niente, mio sire – disse uno, alla fine della perquisizione.

– È maschio o femmina? – chiese Arenio.

– È femmina, signore. 

– Potrebbe… recare un sortilegio – opinò ancora Arenio, usando una sottile sfumatura di disprezzo nel pronunciare l’ultima parola. Emiana lo notò, e strinse gli occhi con disappunto.

– Cosa ne dici, mia cara?

Non potendo sottrarsi a questa domanda del re, la donna rispose, controvoglia, guardando fisso davanti a sé con aria rigida e sostenuta: – Non c’è alcun alone magico, mio sire. Ve l’avrei detto subito, se l’avessi percepito.

– Bene, questo chiude la questione. Sopprimiamola, e non ci si pensi più. Hai ancora qualche dubbio, Arenio?

L’interpellato si stava accarezzando la corta barba grigia, con aria pensierosa. 

– Certo, eliminarla mi pare l’unica cosa sensata da fare, tuttavia… vorrei che provaste a interrogarla, mio sire. 

Aarno parve dubbioso. – Dubito che possa parlare, ma se è per farti piacere, proverò.

Arenio s’inchinò leggermente, per l’onore che gli veniva concesso. Emiana pareva sui carboni ardenti: sospirò, assumendo una posa annoiata.

– Chi sei? Chi ti ha mandato?

Quelle domande non ebbero risposta. Il re non si scoraggiò, e proseguì: – Da dove vieni?

– Da… laggiù. – La voce cavernosa e quasi inumana della creatura fece alterare immediatamente l’espressione di Emiana, che trasalì.

– Come sei arrivata fin qui?

– Seguendo… voi. 

Aarno si sporse dal suo seggio, vagamente interessato.

– Vuoi dire che sei riuscita a uscire da sola dalla piana di Inesistenza? E come?

La creatura non rispose, ma sollevò la testa, osando fissare il re. 

Le reazioni furono le più disparate: Aarno contemplò impassibile il volto stesso del nulla; Emiana ebbe un grido soffocato e distolse il viso; Arenio di colpo sbarrò gli occhi e sembrò pervaso da viva curiosità.

Dietro quella maschera biancastra senza lineamenti, quasi un fantoccio di cera appena abbozzato, in quegli occhi bianchi uniformi, il vecchio Arenio aveva scorto per un istante accendersi qualcosa, come una luce di pura adorazione, un sentimento che li aveva resi per un istante quasi umani. Lui, e solo lui, l’aveva percepito.

– Mi pare impossibile – borbottò il re. – Non è mai accaduto. Nessuno riesce a uscire da Inesistenza.

La creatura aveva chinato la testa, tornando immobile e inespressiva.

– Mio sire – intervenne Arenio, con fervore – sapete che di rado vi chiedo favori, ma adesso oso implorare un vostro dono.

– Parla, allora – annuì Aarno. – Se posso concederti qualcosa, lo farò volentieri. 

– Vi chiedo di affidarmi questa creatura, se non intendete disporne diversamente. È l’ideale per i miei studi.

Il re aggrottò la fronte, con lieve stupore. Ma era evidente che Arenio non intendeva spiegarsi meglio di fronte a Emiana. 

Aarno meditò ancora qualche istante, e alla fine annuì. 

– Va bene. Te la concedo: so che agirai per il meglio.

Il vecchio s’inchinò fin quasi a terra, congedandosi. Ai due soldati che scortavano l’essere, il re fece segno di seguirlo.

Emiana, che nel frattempo si era ripresa dall’orrore che l’aveva invasa, lanciò ad Arenio un duro sguardo calcolatore. Era raro che quello studioso si scoprisse tanto, mostrandosi interessato a qualcosa. E lei si chiese subito in che modo avrebbe potuto trarne vantaggio.

Quando i soldati lasciarono libera la creatura nelle stanze di Arenio, lei rimase immobile con il capo chino, senza guardarsi intorno, priva di curiosità e apatica, proprio come qualsiasi Incappucciato, benché lo studio fosse un luogo assai singolare, dagli scaffali colmi di libri e rotoli di pergamena, e con i banconi invasi da oggetti misteriosi che avrebbero suscitato la curiosità di chiunque. Ma Arenio non si scoraggiò.

– Hai un nome? 

Non ebbe risposta.

– Te lo darò io, allora: ti chiamerò Alimar. Io mi chiamo Arenio e sarò il tuo padrone. Dovrai obbedirmi e chiamarmi sempre “mio signore”, oppure “padrone”. Hai capito? – la fissò per rendersi conto se avesse compreso. Ancora nessuna reazione. Allora prese un librone dagli scaffali, lo aprì su un leggio, e iniziò a scrivervi sopra con una penna d’oca.

– Se eseguirai i miei ordini, non sarò un cattivo padrone, e cercherò di tenerti in vita più che posso. Se tu mi servi bene, imparerai da me, e io da te.

Prese in mano una candela accesa, e si avvicinò alla creatura. Questa reagì appena alla fiamma accostata al suo viso, con un lieve tremolio delle palpebre. Ma quando il vecchio, inclinando la candela, fece gocciolare la cera sulle sue mani intrecciate, ebbe un mugolio e scappò in un angolo, rattrappendosi e guaendo come un cucciolo.

– Reagisce al dolore: buon segno – commentò Arenio, prendendone nota. Poi, tornò a rivolgersi alla creatura.

– Vieni qui, non temere. Non ti farò più del male.

Dovette ripetere quell’ordine più volte, ma alla fine l’essere si rialzò, sia pure tremante, e si avvicinò. Forse era un’illusione, ma ad Arenio parve di scorgere un barlume di coscienza, in fondo a quello sguardo biancastro.

– Sarà seccante – pensò a voce alta – se dovrò ricorrere sempre a stimoli dolorosi. 

– No – mugolò la creatura con quella voce estraniata che faceva rabbrividire le persone troppo sensibili. – No. No, mio… signore.

Arenio, sorpreso, la scrutò con nuovo interesse.

– Come mi chiamo, io?

– Arenio. Mio… padrone.

– E che nome ti ho dato?

Ci fu un lungo silenzio, poi la creatura sillabò, quasi con dolore: – Alimar.

– Molto bene. Davvero, molto bene.

Scrisse soddisfatto sul suo librone, poi, chiese: – Hai fame? Puoi prendere quello che vuoi dal tavolo.

La creatura non esitò a gettarsi su quegli avanzi. Anche l’appetito era un buon segno: molti Incappucciati si lasciavano morire di fame, fuori dalla loro pianura; altri morivano per malattia, o per i maltrattamenti con cui li si costringeva a imparare; certuni scappavano per tornare a Inesistenza, e pochi sopravvivevano fino a divenire passabili servitori, per i compiti più umili. Però, per i signori, la caccia a quelle creature era un gioco che consisteva nello sfidare il terrore del nulla, nel rischio di perdere dei soldati e di venirne essi stessi inghiottiti. Così si esorcizzava l’incubo perenne di Inesistenza, con il solo ausilio di quei bracciali di spine che procuravano dolore continuo, per mantenersi coscienti. Ma qui, di fronte ad Arenio, c’era un’Incappucciata che sosteneva di essere uscita da sola dalla pianura. Cosa l’aveva spinta? Lei stessa non lo sapeva, nessuno poteva dirlo, solo Arenio l’aveva intuito.

Lo studioso faceva grandi progressi con la sua allieva. In pochi giorni, le aveva insegnato a obbedire ad alcuni semplici comandi, nonché a badare a se stessa, lavandosi, vestendosi, e mangiando in modo meno animalesco.

Dormiva su una stuoia nello studio; spesso, dalla sua camera, la sentiva mugolare e lamentarsi nel sonno, quasi fosse tormentata da incubi senza nome e senza volto, da ombre e da paure primordiali che un tempo anche gli esseri umani avevano conosciuto, prima di riuscire a scacciarle nel profondo delle menti. Far rivivere queste paure, per comprenderle meglio, era uno dei compiti che Arenio si era proposto. Ma doveva essere cauto e paziente.

Dovette ricorrere poche volte al dolore e alle punizioni: Alimar si dimostrava sempre volonterosa e ubbidiente, e se proprio accennava a chiudersi e a regredire, gli bastava minacciarla di rimandarla indietro; anche se non gli piaceva il terrore abissale e inumano che vedeva riflesso in quegli occhi senza luce.

Alimar era diversa da qualsiasi altro Incappucciato; quella creatura, prima e unica, era uscita da sola dalla pianura e vedeva con orrore la possibilità di esserne di nuovo inghiottita. Scoprire la causa dell’anomalia avrebbe potuto aiutarlo a comprendere meglio la malefica influenza di quella nebbiosa palude, e come combatterla.

Arenio non era un mistico, né un benefattore del genere umano. Aveva solo la curiosità dello studioso. A lui interessavano i fatti e le loro spiegazioni. Avrebbe volentieri trascorso il resto della sua vita rinchiuso in casa, purché vi fosse qualche studio al quale dedicarsi.

Invece, era costretto dalla necessità ad affrontare le insidie di una corte. Ma ne era stanco, e ogni giorno gli pesava sempre di più, e non solo per l’età, scendere le scale della sua torre per recarsi al cospetto del re.

Alimar trasalì: attraverso la porta semiaperta aveva intravisto nello studio una figura sconosciuta, che parlava con il suo padrone. Stava per richiudere l’uscio e attendere fuori, accoccolata su un tappeto, come sempre faceva quando Arenio aveva ospiti. Invece lui la vide, e la esortò: – Vieni, vieni avanti: non temere. Mi hai portato le piante che ti ho mandato a prendere?

Alimar gliele porse, sporgendosi appena, con timore, mentre guardava di sottecchi l’ospite.

Arenio le aveva raccomandato di osservare tutto quanto aveva intorno e di cercare di riflettere e capire. Non conosceva bene il significato di quell’ordine, però si sforzava di accontentare il suo padrone. Così, vide che si trattava di una donna anziana, vestita dimessamente, ma intuì che nonostante le apparenze fosse di nobile casato.

I capelli grigi erano raccolti in una treccia che le arrivava fin quasi alla cintola. All’orecchio sinistro portava uno strano, lungo orecchino d’argento, raffigurante due serpenti intrecciati intorno a un bastone.

Aveva grandi occhi scuri, profondi quanto quelli di Arenio. E non era l’unica somiglianza. Il suo viso largo e abbronzato, solcato da fitte rughe, recava le tracce di una bellezza dignitosa, non del tutto cancellata.

La donna aggrottò la fronte, osservando Alimar.

– Dunque, è questa – constatò, asciutta.

Arenio confermò, soddisfatto: – Certo! È un’autentica scoperta. Mi fa piacere che tu la veda. Se sapessi i progressi che… 

Lei lo interruppe alzando una mano.

– Proprio di questo sono venuta a parlarti. L’interesse per i tuoi studi ti ha fatto dimenticare il buon senso? Come hai potuto portartela in casa, ed esporti così a ogni genere di… di assurdi pettegolezzi? Sai quanto la tua posizione sia già precaria, a corte, e dipenda dalla benevolenza del re. Ti pare il caso di giocartela?

Arenio si irrigidì.

– Che pettegolezzi? – chiese, con voce piatta. 

L’altra fece un gesto vago con la mano.

– Non vale neppure la pena di parlarne.

Arenio insistette, in tono più duro: – Che sorta di pettegolezzi, Iorilde?

– Puoi immaginarlo: stregonerie, esperimenti illeciti… si insinua persino che tu abbia rapporti contro natura. Tutto ciò che riguarda gli Incappucciati è visto con sospetto, lo sai. No, non dire niente. – La donna si affrettò a prevenire la reazione irosa di Arenio. – Non devi convincere me: io sono venuta solo a metterti in guardia, lo so benissimo che sono tutte fandonie. Ti conosco troppo bene. E so anche chi mette in giro certe voci, e perché. 

Ci fu un attimo di pesante silenzio; Arenio aveva ancora il respiro affrettato per la collera.

– Ti ho sempre avvertito di non inimicarti quella donna – osservò Iorilde.

L’altro sbuffò, con un gesto di stizza.

– E cosa avrei dovuto fare? Partecipare alle sue feste, acconciato come un damerino? È gelosa di chiunque stia al fianco del re. Anche tu, che metti in guardia me, ti sei salvata da lei solo per l’appoggio di… dell’unico di cui quella strega abbia timore.

– Già, e che finora ha avuto il buonsenso di non credere alle sue calunnie. Ma se gli arriveranno all’orecchio queste voci?

– E che dovrei temere? – Arenio si strinse nelle spalle. – Non ho fatto proprio niente contro la Regola.

– Ma hai sempre evitato di prendere precauzioni contro le maldicenze. Avresti dovuto aderire a qualche Ordine che prescriva il celibato, o contrarre un regolare matrimonio, oppure frequentare le case di piacere. Questo ti avrebbe messo al riparo dai pettegolezzi.

– Vecchie storie – sbuffò Arenio. – E perché poi? 

Iorilde serrò le labbra, quasi a volersi impedire di parlare. Poi, di colpo, sbottò: – Se non altro, per evitare di ricorrere alle tue squallide relazioni con serve e contadine!

Senza alterarsi, lui si strinse nelle spalle.

– È finito quel tempo. E da un pezzo. Ormai sono un vecchio. Che me ne farei di una moglie? E quale moglie, poi? Una ragazza, che mi prenda in giro e mi dia figli non miei? Oppure, un’altra vecchia come me, con cui dividere acciacchi e malanni? – Il suo tono era pesantemente ironico. – Smettila di farmi da madre, Iorilde.

La donna scosse il capo. – Come vuoi, Arenio. Mi chiedo perché mi dia tanta pena, visto che non vuoi mai ascoltarmi. Ma almeno, so di averti avvertito.

Si alzò per accomiatarsi. Ma lui la fermò.

– Aspetta. Voglio che almeno tu possa vedere, e giudicare. Mi interessa anche il tuo parere medico.

Lei esitò appena un istante, con la fronte aggrottata. Poi si risedette.

– D’accordo. Mi piegherò anche a questa tua stranezza. Potrebbe essere l’ultima – soggiunse, acida, aggiustandosi il mantello.

– Vieni avanti, e fatti vedere – ordinò Arenio alla creatura, che era rimasta sulla soglia, impaurita dalla loro discussione.

– Non vedo cosa ci sia di strano in una… – cominciò a dire Iorilde, ma poi si interruppe. Aveva scorto il viso della creatura: pur mantenendo un pallore innaturale, vi si notava un abbozzo di lineamenti, un naso appena pronunciato e due labbra sottili. Gli occhi stavano perdendo il loro biancore uniforme e si intravedevano un’iride e una pupilla. Dal cappuccio spuntava qualche rada ciocca di capelli chiari.

– Sembra quasi umana: non può trattarsi di una creatura di Inesistenza.

– Lo era, quando l’ho portata qui. Ma in poco tempo, istruendola e nutrendola regolarmente, è già diventata così. Che ne dici?

Arenio era trionfante, ma Iorilde scosse la testa, sempre più cupa.

– Vedo guai neri, per te, all’orizzonte. Non può essere un’azione ammessa, quello che hai fatto.

– Ma io non ho fatto proprio niente! – protestò Arenio. – Mi sono limitato a osservare un processo che già era in atto. Da sola, ha rinunciato a Inesistenza e ha iniziato a evolversi. Io sto cercando di trovare la chiave del mutamento. E forse, si potrebbe riprodurlo… 

Iorilde continuava a guardarlo in modo lugubre. 

– Tu hai smarrito ogni buon senso. Stai facendo una cosa che ti travolgerà.

Tuttavia, non poteva distogliere gli occhi da quell’abbozzo di viso umano, affascinata, suo malgrado.

– Interrogala – la esortò Arenio. – Sa parlare abbastanza bene, sa eseguire molti comandi, e ricorda quello che le si dice. Le sto persino insegnando a leggere!

– Qual è il tuo nome? – chiese Iorilde.

– Alimar.

La reazione fu assai strana. Iorilde si alzò in piedi, infuriata.

– Lo sapevo, che i guai non erano finiti e c’era sotto qualcos’altro. Che mostruosità stai cercando di fare? Cosa ti proponi di ricreare? Non si può rimanere per sempre innamorati di un sogno, sacrificare tutta la propria esistenza a una donna morta da cent’anni!

– Sempre meglio che diventare l’amante di un uomo di cinquecento anni.

La risposta di Arenio, per quanto pronunciata in tono calmo, in contrasto con l’agitazione di lei, ebbe il potere di placarla. Iorilde si risedette, respirando forte due o tre volte, e con voce tornata normale replicò: – Almeno quello era vivo, non un fantasma. E cos’altro sa fare, questa… Alimar?

– Sa osservare e riflettere. Guarda… Alimar, chi è la mia ospite?

Alimar articolava a fatica le parole, ma la sua voce non era più cavernosa. – Si chiama… Iorilde. L’hai detto tu, padrone. È… tua sorella.

– Perché?

– Mi… avevi detto di avere una sorella… medico. E poi ti… somiglia.

– Che te ne pare?

Arenio si rivolse a Iorilde, che sospirò, ammirata suo malgrado.

– Come l’hai addestrata? – gli chiese. – Se ha delle ferite sarà meglio che le veda, prima che si infettino.

– Visitala pure. Ma ho usato ben di rado la sferza. Impara tutto da sola.

– Va bene, la visiterò. E adesso che c’è?

Alimar, mugolando, si era sottratta alle mani della donna che cercavano di toglierle il vestito, guardando il suo padrone, con aria disperata. Lui cercò di rassicurarla: – Lasciala fare, Alimar. È un medico. Non temere, non ti farà del male.

– Non ho… paura. Io non… – Non conosceva le parole, per esprimere ciò che provava. 

– Ti vergogni, forse? – intuì Arenio. – Non ci si deve vergognare con un medico. E poi, è una donna come te.

– Non di lei, padrone – balbettò, infelicissima, Alimar.

– Ho capito. Vado di là, mentre ti visita.

Arenio sembrava soddisfatto di questa ulteriore manifestazione umana della sua protetta. Ma Iorilde riprese a scuotere il capo, cupamente, borbottando: – Siamo già arrivati al pudore, allora. Non potrebbe andare peggio.