Tratto liberamente dall’omonimo telefilm che la CBS era solita trasmettere nei primi anni Ottanta, The Equalizer (2014) ha narrato come l’ex-agente DIA Robert McCall (Denzel Washington) si sia progressivamente trasformato in un vigilante benefattore, pronto a menare le mani ma sempre per una buona causa. La serie poliziesca originale era stata rimaneggiata in una sorta di prequel/soft-reboot in cui il pubblico ha assistito alla genesi del personaggio, alla nascita del paladino attraverso un faticoso percorso di vendetta. A quattro anni di distanza viene proposto il prosieguo delle sue avventure, ma sembra più che altro di rivivere lo stesso film. 

Trama – Sembra detective ma non è

Robert McCall (Washington) ha apparentemente reciso tutti i legami costruiti nella precedente pellicola. Il cafè costruito sulla falsariga del Nighthawks di Hopper, suo punto di ritrovo per eccellenza, ha lasciato spazio al sedile di una Chevrolet che egli usa in qualità di autista Lyft. Le sue ore di servizio sono tutte dedicate all’ascoltare i problemi dei suoi passeggeri e, all’occorrenza, a risolverli tramite feroci spedizioni punitive o scomodando i contatti dell’amica Susan (Melissa Leo), collaboratrice DIA nonché unico contatto governativo consapevole della sua esistenza.

Mentre McCall fa di tutto pur di creare sottotrame che non verranno rielaborate fino ai titoli di coda – e pertanto utili solamente nell’inquadrarlo come personaggio retto e pio – uno squadrone di assassini inizia a liquidare sistematicamente gli uomini della DIA con azioni militari tanto goffe da risultare parodistiche a tutti meno che agli agenti di polizia direttamente coinvolti. Gli Stati Uniti, insospettiti dal fatto che i propri agenti stiano morendo sistematicamente, incaricano Susan e un suo collega (Pedro Pascal) di venire a capo della situazione.

La donna, fin troppo vicina a comprendere la verità, viene brutalmente eliminata nella sua stanza d’albergo, un cinque stelle lusso nel centro di Bruxelles. La polizia locale archivia il caso convinta si tratti di un tradizionale furto d’hotel, di un incidente, ma la giustificazione non basta a McCall, il quale si lancia nel suo ennesimo delirio di vendetta. 

Struttura – La logica del dodo

Forte del successo del primo The Equalizer, Antoine Fuqua (Shooter, Attacco al potere) torna a occupare la seggiola del regista e questa volta ha deciso di abbandonare gli opulenti orpelli con cui aveva vanamente cercato di valorizzare il suo ennesimo film d’azione. Niente martellanti riferimenti letterari e pure le inquadrature pseudo-artistiche che citano i capolavori della pittura americana sono ormai lasciati alle spalle. Restano le scelte direttive oneste e semplici, tutto sommato godibili nella loro essenzialità.

Fuqua si trova a dover trasporre un copione di infima qualità nel quale gli imperativi morali – già dubbi nel primo film – risultano quanto mai forzati e ambigui, come se la carità cristiana fosse mediata dalla National Rifle Association. Richard Wenk, reo di aver vergato i testi, sembrerebbe quasi aver voluto riproporre una versione pornograficamente violenta dello Scoprendo Forrester di Gus Van Sant, se non fosse che sarebbe molto più stimolare il vedere applicati i tradizionali valori morali di Sean Connery. Certamente sarebbero in grado di sollevare discussioni molto animate.

Conclusioni – Good man with a gun

Come succede spesso per i sequel di film incentrati sulla vendetta, anche The Equalizer 2 finisce con il mimare da vicino il suo predecessore agganciandosi a pretesti puerili pur di far procedere a forza il suo stralcio di trama. Detto questo, è chiaro che il lungometraggio non ambisca ad alti traguardi, gli basta battere cassa intrattenendo il pubblico con facili emozioni e in quel senso si è dimostrato impareggiabile, portando a Sony più di 100 milioni di dollari. Come “guilty pleasure” a tempo perso può essere tollerabile – anche piacevole, se si è fan del precedente film – ma è perlopiù un prodotto superfluo, un relitto che cerca disperatamente di esaltare una lettura positiva della violenza mascherandola malamente attraverso l’egocentrico narcisismo del proprio sistema valoriale.