Prologo

Palermo, 27 novembre 1198

La voci della città erano tristi. Lamenti inconsueti si levavano dalle strade strette e affollate di Palermo, mentre all’orizzonte il mare si tingeva di un pallido azzurro velato da un tempo autunnale che non prometteva nulla di buono.

Il Monte Pellegrino era immerso in una nebbia impenetrabile, che lasciava trasparire appena la verde chioma che ne cingeva la sommità. Violente correnti ascensionali portavano i fumi della tempesta in divenire fino alle cime più alte del rilievo, dandogli la mostruosa apparenza di una figura nefasta ammantata in una cappa nera.

Nel Palazzo Reale il silenzio percorreva le stanze come un bambino dispettoso. Ogni parola era un bisbiglio appena percettibile, che si azzittiva al passaggio delle tremende notizie sulla salute della Regina.

La sovrana che aveva retto l’isola e il regno tutto si era improvvisamente accasciata al suolo la sera prima, durante il consueto ricevimento dei questuanti tenuto a Palazzo Reale. Era stata colta da un malore improvviso, anche se da mesi il suo precario stato di salute era osservato con preoccupazione dai sudditi più fedeli.

Costanza d’Hauteville, la madre del Re e del futuro Imperatore, stava lentamente lasciando tutto ciò per cui aveva lottato. Il suo volto candido, bianco come la veste che indossava sul suo baldacchino di morte, era però leggero. Un mezzo sorriso accompagnava il suo sguardo quando fissava le dame che la circondavano e il chirurgo che, affannosamente, cercava di guarirla.

– Maestà, la sua salute non promette nulla di buono.

– Ne prendo nota mio caro amico, ne prendo nota. So da tempo che la mia vita sarebbe stata breve.

– Mia Signora, in quale altro modo posso servirla?

– Prendendovi cura di mio figlio. – La Regina sorrise al cerusico. – E voi, mie buone amiche, correte a chiamare messer Gentile, che mi occorre vederlo.

Una delle donne chinò il capo in senso affermativo e corse via silenziosa.

– Mi occorre il materiale per scrivere e il mio sigillo – chiese Costanza, indicando un piccolo scrittoio vicino al letto.

Un’altra delle dame si staccò dal gruppo per servire il comando della sua signora e si affrettò a prendere penna, calamaio e pergamena, insieme a un utile piano inclinato in legno, per permettere a Costanza di scrivere pur restando coricata nel baldacchino che la ospitava.

La Regina iniziò a vergare una missiva. La sua mano tremava per lo sforzo di reggere la penna, ma il suo sguardo era fermo e concentrato, come se soppesasse parola per parola ciò che stava scrivendo.

Mia cara cugina, quando leggerai questa mia io non sarò più. Invero, mi mancherà non poterti rivedere. Mi mancheranno le nostre chiacchierate infantili, che non smetto fino ad ora di ricordare con affetto e tenerezza. Ti scrivo queste poche righe per chiederti di vegliare con discrezione su mio figlio, che si troverà bambino a reggere un impero. In verità, la sua intelligenza è straordinaria e il suo destino è stabilito. Forze oscure mi hanno vaticinato la sua reale possanza, in un futuro in cui indosserà lo stemma del nero rapace simbolo imperiale. Ma, come dire altrimenti, vorrei occhi teneri e sicuri a vegliare su di lui, è un desiderio di madre. Ovviamente lui non ti conosce, quindi allego il mio anello, regalo della tua dolce e premurosa madre, che il giovane Federico sa essere sempre stato al mio anulare destro. Te ne servirai per convincerlo che vieni in suo aiuto in vece mia.

Ti saluto con immutato affetto

– Fateli recapitare alla signora di Hauteville-la-Guichard – disse con un fil di voce, sfilando il suo anello e consegnandolo insieme alla pergamena alla dama che le aveva portato il necessario per la scrittura. Questa li prese e si dileguò tra le mute sale del Palazzo.

Mentre la donna usciva dalla stanza, un gigantesco armigero e un gracile individuo giunsero sul posto. I loro volti, già contriti, si fecero quasi disperati alla vista della Regina, che li accolse con un mezzo sorriso di saluto, come a infondere loro coraggio.

– Mia Signora – mormorò il soldato inginocchiandosi.

– Mio caro Ruggero. Ti affidò la difesa e l’istruzione militare di mio figlio, abbi cura di lui.

– Fino alla mia morte, Maestà.

– A te, Gentile, affido la sua istruzione. Che sia sempre rivolta al bene di Dio, ma senza perdere di vista il suo imperiale destino. Molte forze gli si rivolteranno contro.

– Ve lo giuro sulla Croce di Nostro Signore – rispose l’altro uomo, stringendo nella mano destra il crocifisso che aveva indosso.

– E ora sarà bene che io mi confessi.

Una delle dame rimosse lo scrittoio in legno di cui la Regina aveva fatto uso e, dopo averlo riposto, invitò tutti a uscire dalla stanza. Ruggero si rialzò, sferragliando nella sua ingombrante armatura, e si asciugò gli occhi distrattamente, incrociando lo sguardo con Gentile che non smetteva di tormentare la croce che aveva in petto.

– Andate, amici miei. Io non vi abbandonerò. Ora mi aspetta il Padre, che saprà indicare a voi e a mio figlio la giusta via – li congedò Costanza, alzando appena la mano in segno di saluto.

Gentile guardò la sovrana e poi Ruggero, chinò il capo con un cenno affermativo e si allontanò, seguito dal compagno, senza voltarsi indietro.

Quando la Regina fu finalmente sola, si accorse di non esserlo davvero. Una lieve ombra, quasi un raggio di sole furtivo, che si mimetizzava tra le pietre e le colonne che delimitavano la stanza, ondeggiava come dotata di vita propria. Costanza allungò la mano e sentì come un calore provenire da quella strana presenza. Questa si addensò in una forma ectoplasmatica vagamente familiare.

Mia dolce figlia, ti rivedrò nuovamente.

– Padre!

Leggera sarà la tua dipartita, facile il tuo trapasso, splendido il tuo futuro.

– Non lo dubito, ma cosa ne sarà del mio piccolo uomo?

Lotterà per divenire, diverrà un lottatore. Stupirà il mondo con la sua grandezza.

– Padre, ti sono grata. Affido alla tua sicura guida l’anima mia.

E, prima che il confessore giungesse, Costanza d’Hauteville spirò socchiudendo appena gli occhi. Quando le sue dame fecero entrare l’abate del vicino convento, un fresco profumo di rose aveva invaso la stanza.

– Non c’è più! – esclamò una di loro.

– La fragranza del fiore caro alla nostra signora si sparge intorno al suo corpo – le fece eco un’altra.

– L’ho sentita chiamare suo padre – notò una terza.

– Invero, pare che all’approssimarsi della morte si incontrino i cari estinti – le. rispose l’abate.

Fu in quell’istante che una voce infantile irruppe nella discussione. Una voce ferma, seppur dolce e innocente.

– Lasciatemi vedere mia madre.

Federico di Hohenstaufen, ad appena quattro anni, riuscì a guardare tutti dall’alto in basso e a incedere, come avesse il passo di un uomo fatto, verso il letto che accoglieva il corpo ancora caldo della genitrice. Le toccò una mano. La baciò. Piegò le ginocchia e quindi si rialzò. Poi si voltò di scatto, inquadrando ognuno dei presenti.

– Preparate ogni cosa con la solerzia e la puntualità che vi conosco – comandò.

– Sì, Maestà – risposero gli altri, inginocchiandosi e chinando il capo.