Ankh-Morpork è la città più grande del Mondo Disco, che è un mondo piatto che vaga nello spazio, sorretto da quattro elefanti che poggiano sul guscio di una tartaruga gigante. Il Supremo Grande Maestro, capo della Setta Segreta dei Confratelli Elucidati, evoca un drago per potersi impossessare del potere. Ad Ankh-Morpork tutto è in vendita, i ladri rubano solamente su appuntamento, gli assassini pagano regolarmente le tasse e i testi magici della Biblioteca dell'Università Invisibile vengono incatenati agli scaffali per impedire che scappino e le guardie non devono arrestare nessuno. O almeno, di solito è cosi...

Terry Pratchett apre la narrazione di A me le guardie! con l’ubriacone disilluso Vimes, dipinto con rara intensità nel suo essere, irrimediabilmente, una sbiadita copia di uomo, depresso e fallito, che non può alzare la testa e prova quindi, con precisa costanza, ad affondare il più possibile. Vimes è un uomo preda di eccessi, mirati a camuffare ben più profonde manchevolezze.

Magnifica la parodia di una sgangherata setta segreta, piena di adepti stupidi ed egoisti, sempliciotti in balia della loro inadeguatezza alla vita, perseguitati dal mondo intero, perché incapaci di autodeterminarsi, e dominati da un Supremo Grande Maestro intimamente ignobile, profittatore, consapevole dei loro limiti e certo delle sue ambizioni, che intende realizzare con l’aiuto degli ignari e creduloni poveracci, che disprezza e adopera con il potere della bramosia che tutto domina e indirizza.

Cosa succede quando l’epica è fatta non da eroi ma da persone assolutamente normali? Ficcarci dentro individui semplici, eroi improbabili, gente con pregi e difetti reali significa ottenere un risultato a dir poco esplosivo. Menti frustrate, risentite, uomini vessati dal vicino, ambiziosi, di quell’ambizione piccola, gretta e maligna che è una molla poderosa capace di trasformare l’uomo più pavido in un genio del male. Si crea così un corredo di meschinità, approntato per una buona causa: la loro personale e arbitraria giustizia. Ma essi non possono che suscitare simpatia. Il rovesciamento della realtà è totale: arrestare i ladri è contro la legge, poiché il crimine, visto che c’è, è bene organizzarlo.

Il campionario umano di parodie è altrettanto vario e splendido.

Attraverso la parodia dell’Imperio della Legge, Pratchett ci mostra i mali della corruzione, in una società in cui ognuno è al suo posto, perfettamente calato nel suo ruolo e consapevole di vivere ‘giustamente’ alla rovescia. C’è però un elemento destabilizzante: un giovane semplice e ingenuo, ma onesto, per cui il rispetto della legge e della morale è qualcosa di assolutamente normale. In un mondo dove la disonestà regna sovrana, un improbabile paladino porta lo scompiglio nell’ordine delle cose, iniziando a infondere stille di coraggio e buon senso a una Guardia Cittadina che recita da tempo la sua parte senza sbavature, con quella sfiducia da smidollati che è tipica di chi non riesce a pensare con la propria testa.

È senza dubbio difficile descrivere la comicità delle vicende; e forse il motivo sta nel fatto che la comicità è ‘quotidiana’, pagina dopo pagina comune e inevitabile. È parte integrante della narrazione, non mezzo, non scopo né orpello. Anche con il padre-padrone Lord Vetinari, l'autore raggiunge livelli altissimi di parodia, creando una figura grottesca, che incarna il tipico uomo illuminato dalla sua missione, fatto che lo pone al di sopra di tutto e di tutti, onnipotente e onnisciente burattinaio di uomini, cose e situazioni. Marcio, corrotto, furbo, intelligente, benevolo, sa sempre cosa fare, riesce ogni volta a prevedere e capovolgere la più irrimediabile delle situazioni.

La vicenda appare senza uscita, ma pian piano il capitano Vimes inizierà a sentirsi colpito nell’orgoglio, scoprendo così di averne uno, e lo stesso analogo percorso è tracciato per il resto della fenomenale Guardia Cittadina. E tutto inizia a cambiare.

È davvero forte la carica dissacrante che permea il romanzo, sia quando si riferisce a temi strettamente sociali, morali o politici, sia quando cerca di mostrare l’assurdità dell’essere uomini in una società energicamente voluta e desiderata apposta per il suo carico di estrema noncuranza dell’uomo in sé.

Le gag dell’autore regnano sovrane, anche quando la situazione precipita e l’intento diviene quasi puramente critico: un Supremo Grande Maestro che assaggia il potere ne rimane succube, non può pensare di non rimanerci invischiato, non può fare a meno di nutrire quel male stesso che ha evocato per i suoi scopi. È come un "tossico del potere", e tale diventa.

È interessante come Pratchett tiri fuori dal cilindro il tema della sottomissione cieca e ignorante di un popolo disabituato a pensare, nel momento in cui dal nulla compare una figura che sembra porre fine al terrore che si era diffuso in città. Ed è in nome della libertà che il nostro Capitano Vimes inizia a porsi delle domande, meravigliandosi e meravigliandoci del fatto che la sua coscienza sia l’unica a saper ancora discernere il bene dal male, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Il male non può farla franca. Ed è il male stesso che si rivolge contro i ‘cattivi’, rei di aver voluto piegare, astutamente, l’idea stessa del male ai propri utilitaristici fini, per pura, semplice presunzione.

È qui che Pratchett sembra suggerire una visione grottescamente ‘morale’ del male stesso. E tutto proprio quando la Guardia appare sostenere i diritti dell’uomo e quell’anelata uguaglianza contro una monarchia e una tradizione spinta a forza nelle torpide menti di ciechi cittadini. Si alternano servilismo e sprazzi di anormale e insolito buon senso, ma il baluginio di pensiero come retta via e di legalità sembra affondare dietro uno schermo di indolenza generale.

In questo quadro diviene ancora più forte la critica dell’autore a una società che vede al vertice ladri, assassini, mercanti, corrotti e corruttori, e alla base guardie, insegnanti e mendicanti. È evidente l’intento di Pratchett di utilizzare il totale capovolgimento dei valori e della morale per illustrare il malcostume della società moderna, seppure con una forma di satira forse poco usuale. A una tirannia se ne sostituisce un’altra, ed è incredibile vedere come gli uomini possano accettare di buon grado questo avvicendamento alla pari, dove si cambia tutto per non cambiare nulla.

Solo i pavidi, semplici e non del tutto innocenti miliziani della Guardia possono superare il muro di terrore e sottomissione, quell’asservimento, quella dipendenza mentale che induce al sonno della ragione.

Ma non temete, anche quando l’intrigo e il dramma prendono piede, Pratchett resta sempre Pratchett. Emergerà un bel cattivo, realmente senza scrupoli, anch’esso frustrato come molti dei personaggi del romanzo, ma in più furbo, ambizioso, doppiogiochista, addentro agli intrallazzi, proiettato verso quel potere così a portata di mano da poterlo solo sfiorare. Wonse brama potere e benevolenza, cambiare tutto per non cambiare nulla. Wonse vive all’ombra di un animale politico che tutto dirige e tutto prevede, impassibile e praticamente ‘immortale’, un governatore che ama e odia, ammira e invidia per la capacità di creare lotte, rivalità e fazioni e attingere ogni volta alla rinnovata linfa del potere.

Il potere è un grande protagonista in questo libro. Certo, non il solo. Potremmo scovarne un altro negli assurdi e surreali siparietti dei miliziani della Guardia, capaci di ragionare astrusamente con una straordinaria limitatezza di vedute, per giungere poi a delle strabilianti verità assolute: una presa di coscienza di sé salverà il mondo. E sarebbe un delitto non leggere il come.

Nota bene: A me le guardie! è il primo capitolo della saga della Guardia Cittadina, ma è tranquillamente leggibile come libro a sé stante.

Nota bene 2: La versione recensita è quella del 2002, edita da Salani. Segnaliamo che il romanzo è stato riedito nel 2005 dalla TEA, al prezzo di 8,00€.