Una bandiera rossa con la svastica nera in campo bianco sventola dal palazzo del governo. La Seconda Guerra Mondiale è finita da sessant’anni con la vittoria del Terzo Reich: l’impero tedesco, prospero e ricco, domina l’Europa e il Nord America.

Heinrich Gimpel è un rispettato ufficiale della Wehrmacht. Lui e la sua famiglia sono ebrei, scampati alla soluzione finale e costretti a vivere una doppia vita: da una parte figli rispettosi del Reich, dall’altra impegnati a mantenere e difendere, in segreto, le tradizioni e la storia del popolo ebraico. E a sopravvivere, nel cuore dell’Impero, a Berlino.

Ma qualcosa, nella politica del Reich, sta cambiando. Un nuovo Fuehrer prende il potere e subito promette cambiamenti, denuncia errori commessi nel passato, vuole dare una svolta all’Impero Tedesco. Sarà sufficiente per permettere agli ebrei di mostrarsi per quello che sono?

Con questo In presenza del nemico, Harry Turtledove esplora ancora una volta gli infiniti mondi della storia alternativa che gli avevano già portato successo in passato (Invasione, 1994 e Colonizzazione, 1999): questa volta però lo fa con poca originalità, ripescando idee già trattate da P.H.Dick (La svastica sul sole, 1962) e da Robert Harris (Fatherland, 1995). E’ comunque abile a tratteggiare un mondo dominato dal Terzo Reich, così come è straordinariamente efficace la caratterizzazione dei personaggi, dei loro sentimenti e delle loro motivazioni. Quello che manca, in questo romanzo, è la storia. Assistiamo, prima divertiti, poi sempre più frustrati, a interminabili partite di bridge tra la famiglia Gimpel e i loro amici, i Dorsch, ignari di frequentare una famiglia ebrea. Sorridiamo, ma con apprensione, alle disavventure scolastiche della figlia maggiore dei Gimpel, da poco a conoscenza della sua “diversità”. Seguiamo prima con interesse, poi con distacco, la vita quotidiana degli altri personaggi che gravitano intorno ai Gimpel.

Percepiamo con la coda dell’occhio che, sullo sfondo delle vicende personali, stanno avvenendo fatti importanti, eventi storici che plasmeranno il Terzo Reich, che cambieranno ancora una volta la storia dell’Europa. Tutti questi eventi li vediamo lontani, come attraverso un vetro, annegati nel racconto della vita quotidiana dei protagonisti. Peccato, perché è chiaro che il mondo delineato da Turtledove è affascinante e ben costruito.

Il momento di svolta avviene a tre quarti della lettura. Troppo, per appassionare, soprattutto se in un romanzo come questo si cercano intrecci coinvolgenti e colpi di scena. Tutte gli avvenimenti e le situazioni precedenti hanno come obiettivo quello di prepararci a questo unico momento di azione nella trama, dove finalmente succede qualcosa al protagonista. Una tecnica del genere però non funziona né nelle saghe, né nei romanzi lunghi e a maggior ragione non può certo essere efficace in questo caso.

La sensazione che il libro lascia alla fine è duplice: da una parte c’è quasi l’impressione che Turtledove abbia voluto cimentarsi con un mero esercizio di stile, giocando con le variazioni storiche più collaudate. Dall’altra è come se si percepisse la mancanza di una dimensione più ampia, alla quale l’autore ci ha certamente abituati (e probabilmente ha anche abituato se stesso). E’ verosimile pensare che abbia voluto dare una connotazione più “umana” alla storia, concentrandosi sui personaggi singoli e non sugli eventi politici e sociali. In questo senso, l’obiettivo è certamente raggiunto, ed è da questa considerazione che deriva il giudizio dato al libro.  Rimane però l’amaro in bocca, pensando a cosa avrebbe potuto fare l’autore con la sua conoscenza della materia, la sua capacità tecnica e, perché no, la sua immaginazione.