- Non dobbiamo accendere luci - bisbigliò Stavros nel suo italiano tagliente appena gli altri due gli furono abbastanza vicini - fino a che non saremo coperti dal costone di roccia. Lo dirò io, quando sarà il momento...Quegli animali non devono vederci - concluse in un sibilo, alludendo agli abitanti del villaggio che si erano appena lasciati alle spalle.

Fu il silenzio che seguì a renderli del tutto consapevoli dell’oscurità assoluta.

Era una notte senza luna degli ultimi giorni di maggio. L’isola, in quel periodo, era il regno del vento. Se tendeva l’orecchio, Bruno sentiva il rumore martellante delle onde contro la scogliera sotto di loro, ora boati potenti, ora brevi soste colme di gorgoglii e risucchi.

- Seguitemi da vicino - ordinò Stavros.

I tre uomini si incamminarono per un viottolo che partiva subito dietro la casa del greco e si inerpicava lungo il fianco della montagna opposto al villaggio, sul versante che finiva a strapiombo sul mare. Bruno chiudeva la marcia, in testa Stavros che, malgrado la stazza corpulenta, dava prova di insospettabile agilità. Lo avevano visto per la prima volta il giorno precedente, quando si era fatto incontro al caicco che li aveva sbarcati su quell’isola a sud di Amorgos, attraversando il pontile del minuscolo porticciolo con passi sicuri e bovini che si piantavano pesantemente sul tavolato, strappando alle vecchie assi di legno tonfi sordi e scricchiolii.

- Ora potete accenderle!

Questa volta il greco quasi gridò, per sovrastare l’ululato del vento. Nel buio, appena rotto dai fasci sciabolanti delle torce, né Bruno né Giulio si erano potuti rendere conto dell’itinerario seguito dal viottolo che continuava a salire, lasciando solo intuire alla loro sinistra la parete scoscesa della montagna. A un tratto, però, il sentiero piegò decisamente in un’altra direzione.

Fu il vento a darne conferma. Una folata d’aria fresca e salmastra li investì di fronte, con un’intensità inattesa.

Più in basso, nel buio, il muggito del mare. Giulio diresse la torcia verso quel suono diventato assordante.

Il fascio di luce si estingueva nel nero assoluto, centinaia di metri sotto di loro , senza incontrare nient’altro che vuoto.

- Avanti, gamoto Christò mu! Manca poco, ancora!

Stavros li incitava con voce roca e stizzosa, preso da una dannata urgenza di concludere quello per cui erano giunti fin lassù. Presto la situazione cambiò, di nuovo, e il sentiero cominciò a insinuarsi in una stretta fenditura nel corpo della montagna, arrampicandosi su ripidi gradini scavati nella roccia. Stavano procedendo da almeno un’ora, quando Stavros si fermò e, afferrato il polso di Giulio, lo obbligò a dirigere la luce della sua torcia su un ripiano più ampio degli altri.

Sulla liscia superficie di pietra apparvero, ripetuti più volte, alcuni segni incisi : un tratto verticale sormontato da un piccolo cerchio, la base divisa in due punte come una V capovolta. A Bruno quei graffiti non dicevano assolutamente nulla, ma Giulio sembrò rianimarsi, d’un tratto.

- Siamo vicini? - domandò con un leggero tremito nella voce.

- Ci siamo quasi - gli rispose secco il greco e subito si volse per riprendere il cammino.

I gradini terminarono su una enorme piattaforma di pietra spazzata dal vento, in leggera pendenza, una sorta di sperone che si protendeva come una prua smisurata verso il mare aperto.

Sul lato opposto, i fasci di luce delle torce di Bruno e Giulio incontrarono una parete di roccia a strapiombo. Stavros, che li aveva preceduti, si era fermato un centinaio di metri più avanti e con la sua torcia disegnava nel buio delle oscillazioni come per far loro un segnale. Lo raggiunsero.

Le linee titaniche della parete verticale e del piano si incontravano in quel punto formando un angolo retto. Lì, dove la piattaforma si riduceva a un ballatoio di pochi metri sospeso sul pozzo di gorghi ventosi, si apriva l’imboccatura di una caverna. Furono immediatamente chiare le tracce di un remoto intervento umano, perché all’ingresso della grotta erano allineate geometricamente delle grosse pietre squadrate, quasi a indicare un percorso. Ma, soprattutto, una serie ripetuta e intrecciata di quegli stessi segni che avevano già incontrato incorniciava l’ingresso della caverna, e le conferiva vagamente l’aspetto del portale di un’arcaica cattedrale pagana. Entrarono. L’interno sulle prime li deluse. Era un’ampia sala dalla cubatura irregolare scavata nella pietra della montagna, i fasci incrociati delle torce ne intercettarono le pareti a una cinquantina di metri dall’ingresso. Era asciutta, senza alcuna traccia di umidità, il suolo ricoperto da uno spesso strato di polvere bianca e finissima simile a sabbia che ingoiava uno ad uno i loro passi.