Quando agli inizi degli anni ’90 si cominciò a parlare di una probabile trasposizione cinematografica di quello che è considerato il Vangelo della narrativa fantasy, Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, subito ci si domandò chi sarebbe stato coinvolto nel progetto. Quando emerse il nome di Peter Jackson molti degli appassionati scossero increduli la testa. Eppure questo quasi sconosciuto regista neozelandese aveva già dimostrato di possedere molte frecce nel suo arco. Gli appassionati del genere splatter già lo conoscevano per paio di pellicole, Bad Taste e Brain Dead, vincitori di premi prestigiosi che consacrano il suo genio ironico e fuori dalle righe e gli aprono definitivamente le porte del mercato cinematografico internazionale.

Negli ultimi tre anni Jackson si è trovato catapultato da una relativa oscurità all’olimpo dei migliori registi hollywoodiani, ma il successo non sembra averlo cambiato, parla a voce bassa ed educatamente e mantiene lo stesso aspetto scapigliato di sempre.

Sembra persino stupito dell’enorme folla che ha presenziato alla prima de Il Ritorno del Re a Wellington e non vede l’ora di riappropriarsi della sua vita di tutti giorni, fatta di lunghe dormite, tempo libero e giochi con i suoi figli.

Confessa candidamente di sentirsi elettrizzato ogni volta che decide di fare un film e, per quanto si possa sfiorare il luogo comune, è bello sentirgli dichiarare che i film vanno realizzati per il pubblico e che non vede l’ora di finirne uno perché gli spettatori possano goderne.

“E’ questo quello che ti devi sforzare di fare”, ha detto Jackson. “L’intera Trilogia esiste in funzione de Il Ritorno del Re, quello che contava veramente era la realizzazione del terzo episodio, è quello che dà un senso ai due film precedenti. La Compagnia è stato il prologo, Le Due Torri il difficile capitolo centrale e ora, finalmente, tutto ha un senso. Ne Il Ritorno del Re si respira un’atmosfera di conclusione. E’ stata dura per gli attori, si emozionano guardando il film perché il film è emozionante. La fine del film rappresenta in fondo la fine di tutti i nostri viaggi. Tutti siamo diventati amici durante le riprese, è come se tutto finisse nello stesso momento, sullo schermo e fuori di esso. Ed è proprio accaduto ciò che avevo sperato. Speravo che fosse un po’ triste o perlomeno che riuscisse a catturare parte della tristezza presente nel libro, una tristezza che non è, però, deprimente. Questa malinconia deriva dal fatto che si è felici che tutto sia andato per il meglio, ma c’è comunque un prezzo da pagare”.

Pur non provando sentimenti, per così dire, anti-hollywoodiani, il suo sogno è quello di restare in Nuova Zelanda e continuare lì a girare il suoi film. Non intende trasferirsi in alcun altro paese del mondo per fare il suo lavoro e sostiene che Il Signore degli Anelli non avrebbe potuto essere realizzato da nessuna altra parte soprattutto per una questione di costi.

“In fondo abbiamo realizzato tre film da 130 milioni di dollari l’uno quando viviamo in un mondo in cui, mediamente, un film costa 200 milioni di dollari. In pratica abbiamo realizzato tre colossal al prezzo di due e soprattutto guardando Il Ritorno del Re si noterà che non c’è traccia di questa economia all’osso, anzi. Naturalmente le maggiori case produttrici non lo riconosceranno mai, ma queste economie sono state possibili proprio perché è stato realizzato in Nuova Zelanda” ha dichiarato Jackson con una punta di polemica.

La prossima realizzazione di King Kong è per Jackson la ripresa di un vecchio progetto in un momento in cui, per lui “Qualsiasi cosa assomigli a un film è allettante”. Il progetto era stato abbandonato a causa del mezzo fiasco di Mighty Joe Young e Godzilla ma ora dopo il trionfo della Trilogia, il discorso è molto più stuzzicante per i produttori della Universal, ma le ragioni sono ancora più profonde: “King Kong è comunque il mio film preferito di sempre, ma mi rendo conto di quanto per le generazioni attuali il vecchio bianco e nero sia quasi inguardabile o comunque poco interessante: ciò che vogliamo ottenere è qualcosa che, pur traendo vantaggio dalle nuove tecnologie, rispetti lo spirito e il pathos emozionale del primo film del 1933”.