La porta del bar si aprì lentamente: entrarono per primi alcuni fiocchi di neve, poi Gino Pistolato, da tutti detto "il mona".

- ‘Ggiorno

biascicò l'uomo, masticandosi le labbra.

- Chiudi la porta, mona! - gli urlò contro Odillo Pezzi, il maniscalco, seduto al solito tavolo con i compagni di carte.

Con movimenti impacciati e sghembi, il mona chiuse fuori dal locale i rumori della strada, lo scalpitare dei cavalli e le urla del venditore di caldarroste, e si girò a osservare i presenti.

- ‘Ggiorno

 disse ancora. Lo sguardo dritto, nonostante il corpo fosse spezzato, costretto in una innaturale posizione dalla schiena piegata ad angolo retto.

- Mona, vieni un po' qui - disse ancora il maniscalco - fai sentire agli amici cosa ti ho insegnato.

Il mona si avvicinò barcollando al tavolo dove sedevano il maniscalco e tre compaesani: Michele e Berto Giomo, che lavoravano alla cantina, e Livio Sandri, che aveva due campi di radicchio rosso.

- ‘Ccnzone?

- La canzone, sì! Muoviti, storpio!

- Una canzone? Sei anche un artista, mona?

chiese Michele, il più vecchio dei Giomo, dando di gomito al fratello seduto al suo fianco.

- ‘Rrtista... bravo

- E allora canta! Scimmia!

tuonò il maniscalco

- ‘Ssì

attaccò il mona

- ‘Niscalco ferra i c'vallini...

'n c'è nesciuno che si avviccini...

ap'parte un mona che n'n 'ndrietrregia...

e cavallo fa una s..curreggia

La sala esplose in una sonora risata, che coprì il balbettio stentato del cantante.

Il mona sorrise compiaciuto della reazione che la sua esibizione aveva destato. Gli piaceva essere parte di quel gruppo.

- bbravo 'rtista - disse, avvicinandosi al maniscalco - bbravo 'rtista

A quel punto il maniscalco avrebbe dovuto offrirgli il vino.

Il maniscalco era un suo amico.

- bbravo 'rtista

disse ancora, mettendogli una mano sul braccio.

- Non toccarmi!

urlò il maniscalco.

Il mona tolse la mano spaventato. Il braccio del maniscalco urtò la bottiglia di rosso posata sulla tavola e la mandò a terra, in pezzi.

- Brutto maiale!

Il maniscalco diede al mona uno spintone tanto forte da farlo ruzzolare a terra.

Il mona si contorse piagnucolando.

- Tirati su, specie di aborto!

urlò il maniscalco tirandogli un braccio.

Il mona si levò in piedi. Non gli piaceva più, quel suo amico.

Tentò di parlare, ma dalla bocca uscì uno sputacchio.

- Togliti di mezzo! Schifoso!

Il maniscalco lo spinse verso il fondo della sala.

Caracollando, il mona bestemmiò ad alta voce. Le parole stavolta furono chiare, uscirono senza inceppamenti, dirette.

- Questa è anche meglio della tua canzone!

rise ad alta voce l'oste, rivolgendosi al maniscalco.

- Bestemmi, scarto d'uomo? Bestemmi?

Il maniscalco, livido in volto, si avvicinò minaccioso al mona, seguito subito dall'oste.

- Calmati Odillo, calmati... è un poveraccio senza cervello. Hai bevuto troppo.

Il tentativo dell'oste non fece che aumentare la collera del maniscalco:

- Allora? Hai bestemmiato sì o no? Vedrai se non ti raddrizzo a forza di botte, storpio!

Altro gelo entrò nella stanza insieme ad altra neve.

- Lascialo stare!

La voce che arrivava dalla porta aveva un suono argentino.

Una bambina piccola.

- Lascialo stare, maniscalco!

Tutti si voltarono verso la figurina malvestita che stava dritta davanti alla porta spalancata. Non tremava, nonostante fosse coperta di miseri abitini, del tutto inadatti al gelo che aveva portato con sé.

Per qualche secondo regnò il silenzio.

- Oh ma in questo bar entrano proprio tutti

attaccò Sandri, verso l'oste che tratteneva il maniscalco per la camicia, la bocca spalancata per la sorpresa.

La bambina si fece avanti.

- Attento Odillo, ora ti fa secco!

Lo scherno di Berto Giomo non aveva effetto sulla bambina, che continuava ad avanzare mettendo un piedino avanti all'altro.

Di fronte al maniscalco sembrava un sacchetto di stracci.

- Lascialo... andare!

Il maniscalco diede una manata sulla schiena del mona, così forte da far pensare che gli avesse spezzato quel che restava della spina dorsale.

- E dove dovrebbe andare? Ora è il mio cantante, e ci faccio quello che mi pare.

Detto questo, si chinò verso la bambina ed emise un sonoro rutto, mostrando i denti anneriti dal tabacco.

Fu in quel momento che la bambina ruggì.

Non un urlo, non un verso da bambini. Un vero e proprio ruggito, un rumore talmente forte da far vibrare i vetri del locale e cancellare le risate degli uomini, il cozzare dei bicchieri, il piagnucolìo del mona. Un rumore da spaccarsi le orecchie per non sentirlo.

Sembrava che il cranio le fosse diventato enorme, una bocca di due metri incorniciata da due file di denti aguzzi montati su mascelle pronte a scattare.

Le teste degli uomini sibilavano come se fossero sul punto di esplodere.

E il mona che gridava:

- bbsta coscì... b'sta....

Ma nessuno poteva far altro che tenersi il capo attaccato al collo.

Fino a che la bambina non chiuse le labbra, in un sorriso candido.

O almeno questo è quello che racconta Odillo Pezzi, quando gli chiedono perché i suoi baffoni, un tempo neri come le penne di corvo siano canuti come un manto di neve.

La porta del bar si aprì lentamente: entrarono per primi alcuni fiocchi di neve, poi una bambina piccola uscì tenendo per mano un uomo piegato a metà.

Un mona, che chiamava papà.