L’Einaudi Ragazzi raccoglie in un elegante volume tre brevi romanzi di Roberto Piumini: Lo stralisco; Motu-iti; Mattia e il nonno.

Conviene subito dire che Piumini può essere comodamente collocato in una posizione preminente nel ristretto novero di scrittori italiani contemporanei in grado di vantare una produzione originale e incisiva. Scendendo ancora di più nello specifico, sarà inoltre bene chiarire che questa originalità è, secondo un corretto uso etimologico della parola, un essere originario. Piumini, nei suoi incantevoli libri, racconta sempre della e alla parte più profonda e primigenia del lettore. ìQuesta, evidentemente, è una qualità poetica e, infatti, le fantastiche avventure delle sue narrazioni sono sempre metafore elaborate e irresistibili.

Non sarà, quindi, un caso se il naturale sbocco commerciale del suo lavoro abbia trovato luogo sugli scaffali della cosiddetta letteratura per l’infanzia (qualsiasi cosa significhi questa nomenclatura): pochi, infatti, possono vantare di essere altrettanto primigeni (e profondi) di un bambino.

Non sarà, allora, neppure un caso che Piumini abbia acquisito questa qualità poetica e irresistibile in anni e anni di esperienza come insegnante, pedagogista, autore di poesie, filastrocche, fiabe, storie, racconti, romanzi, poemi, testi teatrali e canzoni per l’infanzia, e alla scrittura e conduzione di trasmissioni radiofoniche quali “Radicchio” e “Il mattino di zucchero” e di una delle più belle trasmissioni televisive del nostro palinsesto, “L’Albero Azzurro”.

In questo campo, inoltre, Piumini sembra essere stato di stimolo a una felice scuola, dal momento che è dal campo della letteratura infantile che vediamo gioiosamente fruttare le fantasiose e pregnanti rivisitazioni mitologiche di Beatrice Masini e il fantastico cibernetico di Bruno Tognolini: quanto di meglio ci offra la nostra letteratura oggi.

 

Ci riserviamo di parlare del primo dei tre romanzi per ultimo, giacché, a nostro avviso, rappresenta un superamento dei successivi due (e, forse, l’apice della produzione di Piumini).

Procederemo, dunque, entrando nel remotissimo mondo di Motu-Iti.

Come in molti altri libri e, in particolare in Storie di un fiato (una raccolta di brevissimi racconti illustrati simpaticamente da Anna Laura Cantone), da buon pedagogista, Piumini si prende la briga di svolgere un lavoro di carattere eziologico: scoprire perché le cose sono quello che sono. Pare, quindi, che l’obiettivo di questo romanzo sia quello di svelare il mistero delle sculture dell’isola di Pasqua.

Obiettivo che, però, non va preso molto sul serio, perché è questo piuttosto l’occasione per raccontare la vicenda di un villaggio neolitico e di un giovane eroe che è solo e soffre. 

Tou-Ema, in effetti, è un eroe, sebbene non esattamente nel senso in cui siamo soliti pensare un eroe. Per esempio non è il più forte e coraggioso. È solo più generosamente saggio e fantasioso. Nel suo villaggio, per dire, si diventa capi in virtù di una regata e Tou-Ema vince sempre perché sa che l’arte di navigare è l’arte di non andare necessariamente dritti, ma quella di saper aspettare l’onda e di fare la scelta insolita. Mentre gli altri si affannano muscolarmente, lui sa affidarsi al mare. 

Facciamo attenzione, perché questa sua peculiarità lo porterà a soffrire. Per questo motivo vedrà la sua vita distrutta, e certo non per colpa di qualcuno particolarmente cattivo o di un traditore: è che nell’edenico villaggio neolitico di cui è capo (come tutto il villaggio globale dell’interminabile neolitico che continuiamo a vivere) tutti sono troppo impegnati a reputare superstiziosamente questo mondo una valle in cui lavorare e soffrire, con invisibili forze che ci assediano (queste forze oggi le chiamiamo, con minore efficacia, inconscio). Tou-Ema verrà ingannato da un rivale e tutto il suo popolo lo esilierà con un certa recondita voluttà, facendolo diventare un mostro e, come nelle più radicali tragedie, rivoltando questo mostro contro se stesso.

È la parabola perfettamente delucidata di quell’atteggiamento suicidale e apocalittico che sembra costituire il nerbo stesso della nostra civiltà. A risolvere questa tragedia sarà, come non capita mai nelle storie di eroi muscolari, l’amore appassionato di una donna. Mancherebbe a quest’ultima, che si chiama Kintea-Ni, un tratto più sensuoso e selvaggio, una sottile follia erotica, per far decollare il libro verso le vette mistiche del Cantico dei cantici.

 

Non manca nulla, invece, a Mattia e il nonno. Un viaggio iniziatico di un bambino in compagnia del nonno morto, attraverso le strade della morte. La morte, se è vero che il suo dio si chiama Plutone, è pur sempre la nostra più grande ricchezza. Il suo regno (diceva Eraclito) è talmente vasto che, ovunque vai, non trovi confini. Questo libro è una delle guide migliori che sia possibile reperire. In particolare, meglio di un libro dei morti tibetano o egiziano, o di una lamina orfica, ci disinibisce dalla paura, di fronte a questo facile mistero, di ridere e piangere. È un romanzo che vi farà fare entrambe le cose. Parlarne oltre non serve.

 

Ancora di meno serve parlare de Lo stralisco. Avete appena aperto il libro e vi ritrovate su un sentiero inimmaginabile: come si può, infatti, immaginare l’immaginazione? Questo libro è un capolavoro assoluto perché ha il coraggio di farlo.

Siete in un oriente di squisita fattura letteraria. Sakumat è un pittore, e viene chiamato a svolgere un lavoro delicato: il figlio di un uomo molto ricco ha una grave malattia che lo costringe a vivere dentro una stanza senza mai vedere la luce del sole. Il pittore dovrà dipingergli dei paesaggi per fargli conoscere il mondo e distrarlo. E, poi, forse, un contato così sfrenato e continuo con la creatività e l’immaginazione non lo salverà dalla morte? 

Il romanzo non risponde negativamente a queste domande; le demolisce.

Il pittore si mette a dipingere per il bambino, Madurer, e scopre che non è possibile conoscere il mondo né con la pittura né in un altro modo. Scopre che conoscere è una forma di distrazione e che la distrazione non può nulla contro il dolore, il quale riguarda tutti, non solo chi muore; che morire, infatti, è un destino comune e quotidiano da cui non ci salva né la creatività né l’immaginazione (che il pittore ha imparato a reputare virtù distinte).

Infatti il bambino alla fine muore, perché si deve morire; e il pittore capisce che quando facciamo parlare l’immaginazione, figuriamo proprio la morte e il suo essere senza confini, il suo essere eternità e totalità. La morte è nera solo perché non ha immagini (noi, tecnicamente, immaginiamo solo in assenza di immagini).

Il bambino muore e il pittore smette di fare il pittore. E questo è il più commovente (e lo è doppiamente, per la mente e per il cuore) lieto fine che la nostra letteratura contemporanea abbia mai conosciuto.

Lo Stralisco è una grandioso libro fantastico sul fantastico.