Prologo

 

Mal si aggiustò la spada sulla schiena. Spadone a due mani, un’elsa lunga quattro palmi e sette libbre di peso. L’arma più adatta ad un guardiano di Malva, diceva suo padre. Un affare di acciaio terribilmente pesante da trascinarsi dietro, pensava Mal. Aveva iniziato il corso di spada da un anno, e ancora non aveva trovato il modo giusto per trascinarsi dietro quell’arma smisurata. Finiva sempre che la punta strusciava per terra, mentre l’elsa gli spuntava su dalle scapole per buoni cinque palmi. Una cosa che gli dava il ridicolo aspetto di uno spaventapasseri. C’era comunque poco da fare; suo padre, un vecchio militare, s’era messo in testa di fargli fare la Guardia Cittadina. Un lavoro sicuro e ben pagato, persino prestigioso, diceva. A Mal non restava altro che piegarsi alla volontà paterna, e seguire tutte le sere il corso di spada, assieme ad un’altra decina di marmocchi come lui, tutti rampolli di famiglie benestanti. Del resto, c’era qualcosa di rassicurante nell’avere il destino già segnato, persino a dieci anni. Nessuna scelta da fare, nessuna preoccupazione per il futuro. Tutto sommato, era come essere avvolti in una coperta, vecchia sì, ma tranquillizzante.

Mal annusò l’aria. L’odore di resina dei boschi lo fece rabbrividire. L’Accademia era in periferia, ad un passo dalla Foresta. Il ragazzino la guardò con timore: nell’aria sottile della sera, era un grumo d’oscurità che insidiava i contrafforti più bassi di Malva. L’eterna lotta tra acciaio e legno continuava.

«Un giorno ricacceremo il bosco da dove è venuto, e sarà vetro e acciaio per tutta l’estensione della Terra. Niente fronde minacciose, basta con intrichi oscuri di rami che celano fiere pericolose. Ovunque la pulizia di strade di pietra e la potenza del vapore imbrigliato.»

Così diceva il vecchio saggio, a lezione, di mattina. Per ora col bosco dovevano ancora farci i conti, e francamente Mal era davvero stufo di trovarselo davanti tutte le sere uscendo dall’Accademia. Era da lì che arrivavano i Selvaggi, per non parlare degli animali feroci.

Mal sbuffò e si incamminò.

Aveva fatto tardi. Si era attardato oltre l’orario delle lezioni per addestrarsi da solo. Il giorno prima era stato battuto in duello da un ragazzino di un’altra Accademia, e la cosa gli bruciava. Doveva rimediare al più presto, e riguadagnare l’onore perduto. Per questo motivo, uscito insieme agli altri, si era messo nel cortile a fare esercizi, in solitudine. In ogni caso, poteva permetterselo. Quella sera Yeli non sarebbe venuto a prenderlo. Persino i servi Drow hanno un giorno libero, una volta al mese, e Yeli a quell’ora era di certo ai Livelli Inferiori a ubriacarsi coi suoi simili. Del resto, aveva iniziato a bere persino dentro casa, quando nessuno lo vedeva. Mal l’aveva beccato, un giorno, con un distillato puro stretto tra le mani e l’aria colpevole sul volto nero.

«Non lo dite al padrone... giuro che non accadrà più...», piagnucolava come una femminuccia. Mal ovviamente era corso da suo padre a spifferare tutto. Del resto i Drow sono infidi; gli dai un dito e si prendono come niente tutto il braccio.

Si era comunque attardato più del dovuto. Ora sua madre gli avrebbe piantato un casino senza fine. Poco male. Quando avesse spiegato il perché del suo ritardo, suo padre gli avrebbe battuto una mano sulle spalle con l’aria soddisfatta: «Bravo, bravo figliolo, l’onore prima di tutto. Lavora duro e vedrai i frutti». Una frase topica, che gli ripeteva spesso.

Mal svoltò, e prese il Passo Principale, la lunga passerella mobile che tagliava in due Malva. Si inclinò all’indietro, e così facendo riuscì a poggiare la punta della spada a terra. I muscoli della sua schiena gli furono immediatamente grati.

Maledetto spadone del cavolo... pensò Mal. E maledetto anche Yeli. Era uno stupido e un beone, ma quando lo veniva a prendere, la sera, era lui a portargli quell’affare sulla sua schiena piccola e curva.

Mal si appoggiò al corrimano, e si godette lo spettacolo di Malva che scorreva ai lati della strada, mentre la passerella si muoveva rapida sotto i suoi piedi emettendo un ronzio appena percettibile. Non c’era un’anima. Solo vetro e acciaio, acciaio e vetro. Le case basse e tozze della periferia lasciarono rapidamente il passo alle costruzioni più slanciate ed eleganti del centro, mentre l’aria si riempiva dell’odore pulito del vapore. Mal sapeva che le fornaci erano ai Livelli Inferiori, caldi come l’inferno. L’odore del vapore che muoveva ogni singolo meccanismo della città penetrava tra le fessure del pavimento, e impregnava l’aria. Un odore che ogni Malvano adorava. Lui non faceva eccezione.

Passò sul Ponte Mediano, e si trovò come sempre ad ammirare l’intrico di palazzi slanciati e vie squadrate che era la sua città natale. Svariate braccia più in basso, altre passerelle scorrevano desolatamente vuote. Aggrappati ai palazzi come liane, i montacarichi salivano leggeri. Solo uno sembrava contenere un omino, così piccolo da risultare indistinto come una formica.