Il pittore di battaglie è l’ultimo libro di Pérez-Reverte.

È la storia di un fotografo di guerra che si ritira, dopo aver ritratto tutto l’orrore possibile vissuto durante le decine di conflitti che hanno sconvolto gli ultimi decenni (Asia, Africa, Balcani), in una torre in riva al mare. Il fotografo, al culmine del successo, abbandona la  professione per dipingere un grande affresco. Il quadro rappresenta una battaglia che riunisce in un solo massacro la storia universale della nostra infamia, dalla caduta di Troia fino alla devastazione dell’ex Jugoslavia, passando per l’Afghanistan. Lo stile dell’artista aspira ad annullarsi nel catalogo di tutti gli stili utilizzati dalla storia dell’arte.

L’opera è talmente ambiziosa e sproporzionata da lasciare il sospetto che il pittore, mediante essa, cerchi di redimersi o, meglio, di annullarsi insieme al proprio stile (in termini freudiani, in fondo, è questo che cerchiamo dal lavoro: una redenzione). Il problema è che non sempre si può sfuggire alle proprie colpe, specie se queste rimangono inconfessate e ignote. Il sogno della ragione produce mostri e, infatti, un bel giorno davanti al pittore compare un fantasma. È un soldato croato, al quale, dopo essere stato riconosciuto dai nemici in una fotografia scattata dal protagonista del romanzo, viene trucidata la famiglia.  Il fantasma lo accusa della propria tragedia. E vuole ucciderlo.

Sì, perché il pittore di battaglie è un libro che parla di fantasmi.

 

L’onda lunga della Movida ha avuto in Spagna dei proficui strascichi culturali. Parliamo dell’improbabile avventura intellettuale di Vila-Matas e dei suoi estenuanti giochi letterari: consigliamo vivamente la sua Storia abbreviata della letteratura portatile (pubblicata in Italia da Sellerio), un libro che rilegge in maniera che non è sbagliato definire fantastica la storia del surrealismo; parliamo della parabola “real-visceralista” di Roberto Bolaño e dei suoi romanzi, miracoloso impasto di realismo (sebbene in una struggente declinazione allucinatoria) e dadaismo.

È in questo dinamico contesto che si colloca anche Pérez-Reverte, per il quale non servono più grandi presentazioni, essendo ormai piuttosto nota la saga del suo Capitano Alatriste (da cui nel 2006 è stato tratto il film Il destino di un guerriero) e famosissimo un romanzo come Il club Dumas (tradotto al cinema da Polanski con il suo La nona porta).

Non meno che nei lavori di Vila-Matas e di Bolaño, in Pérez-Reverte è centrale l’iperbolico intreccio di realtà e finzione, di letteratura e vita vissuta. Nel Pittore di battaglie, però, questo intreccio prende un’inclinazione molto particolare, che, al di là di qualsiasi questione di merito, necessita un discorso circostanziato.

Sarà utile premettere che Pérez-Reverte ha alle spalle una lunga carriera giornalistica e una formazione culturale coltivata nell’ambito della politologia. In generale, dunque, lo si direbbe incline alla frequentazione con ogni sorta di realismo; inoltre fra i tre autori sopraccitati è quello che ha scelto più nettamente di frequentare diversi generi, passando dall’avventuroso al fantastico, senza trascurare lo storico e il giallo. Da qui, facciamo derivare l’originalità dell’autore di Cartagena, perché, se per i suoi colleghi realismo e fantastico sono generi da accostare giocosamente, per Pérez-Reverte possono e devono essere annullati l’uno nell’altro (come fa il suo pittore di battaglie coi vari stili pittorici) cercando qualcosa che va oltre la letteratura: l’etica.

 

E Il pittore di battaglie è veramente un racconto etico che coltiva l’obiettivo di sollevare un dubbio legittimo: se l’uomo è schiavo delle immagini, se l’uomo si lascia dominare fino all’idiozia dalle immagini, la soluzione migliore è quella ascetica di cercare immagini sempre più pure, fino all’iconoclastia?

Il racconto è la storia di una ricerca ossessiva. Il protagonista rinuncia alla fotografia quando la scopre colpevole di creare la realtà che fotografa (il cecchino che spara per essere fotografato; l’aguzzino che diviene più crudele per passare in cronaca). Diviene pittore nella speranza di trovare una dimensione genuina, distante dalla realtà e non colpevole (un grande affresco in una torre d’avorio). Passaggio destinato a concludersi nel fallimento, perché nessuna immagine, e di nessun tipo, è priva di colpa.  Questo ascetismo ha, semmai, il valore di portarci alle estreme conseguenze: privi di immagini, precipitiamo nel campo dell’immaginazione pura (un fantasma) e facciamo i conti con il nostro inconscio. Nel racconto di Pérez-Reverte il pittore si vedrà alle prese non più con un’intellettualistica indagine sul senso dell’arte, ma con una storia d’amore fallita e, in un imprevedibile finale, con un delitto inconfessato.  

Il pittore di battaglie può essere più utile di dieci anni di psicanalisi. Dalla sua lettura usciamo più coscienti dell’inevitabilità della colpa, ma anche della sua illusorietà. Tutto è colpa, e a dircelo è un fantasma. Questo sembra essere l’obliquo messaggio di una storia che ha il fascino di una narrazione scorrevole, puntuale, armonica che non rinuncia mai a essere avvolgente ed espressiva.