A dire il vero tante notizie erano giunte prima che la catastrofe delle borse mondiali diventase argomento delle nostre paure quotidiane.

La mossa di Steven Spielberg di cercare alleati a Bollywood (si tratta della casa produttrice indiana Reliance Big Entertainment, per la precisione) è causata dalla necessità di trovare stabilità per la Dreamworks dopo il difficile divorzio dalla Paramount, ma altre simili manovre mostrano che l'industria dello spettacolo si sta comunque globalizzando, e questi tempi di crisi non potranno che accelerare il fenomeno. Vediamo cosa sta accedendo.

La cinematografia indiana (tuttora la più grande del mondo per numero di pellicole prodotte all'anno) e quella di Hong Kong hanno tradizionalmente una salda presa presso il pubblico asiatico e arabo, e in passato hanno cercato in qualche occasione di creare prodotti adatti a mercati più difficili e di sfondare in occidente.

Adesso nel continente asiatico si sono affermate anche le produzioni coreane, cinesi e giapponesi: e tutte puntano al mercato globale oltre che a quello domestico.

Ma allo stesso tempo una casa americana come la Warner Bros, da tempo presente nel mercato giapponese, punta ad aumentare la sua produzione a 8-10 film all'anno.

La Disney invece si è accorta che nel mondo arabo può trovare circa cento milioni di potenziali spettatori (bambini e adolescenti) e cerca di penetrare in quel mercato.

Invece alcuni artisti indipendenti, come Kathryn Bigelow, hanno trovato all'estero i fondi per le proprie produzioni. Nel caso della regista americana, potrebbe darsi che il motivo sia anche più delicato: il suo The Hurt Locker parla della guerra in Iraq, un argomento velenoso per il mondo dello spettacolo USA, oggi come oggi.

Abu Dhabi e Dubai, principati arabi che vogliono sfruttare le entrate petrolifere per diversificare le proprie attività, puntano invece alle coproduzioni con case occidentali (per esempio, National Geographic). Non mancheranno temi scottanti in queste produzioni: per esempio Tora Bora, serie televisiva in cui una famiglia cerca il figlio arruolatosi nei ranghi dei terroristi di Al-Qaeda.

Nel frattempo, la crisi sembra vicina a sferrare un duro colpo alla Metro Goldwyn Mayer, appesantita da un debito di oltre tre milioni di dollari. È difficile che la compagnia, che vanta una libreria di 4.000 titoli, fallisca: potrebbe però passare di mano.

L'industria televisiva cercherà di sopravvivere alle difficoltà economiche cercando nuovi mercati: se è vero che, probabilmente, la gente continuerà a guardare la televisione anche in tempo di crisi, è ben probabile che gli introiti pubblicitari diminuiscano.

Penetrazione degli Americani in nuovi mercati (e gli Europei sono ancora al ruolo della Cenerentola, ovviamente), joint ventures, denaro straniero (petrolifero, spesso) che finanzia produzioni occidentali. Le conseguenze su quello che ci offrirà lo show business sono tutte da immaginare.

Ma se il denaro diventasse veramente un fattore critico, anche le risorse per lo spettacolo ne soffriranno pesantemente.

Già ora non sembra un buon momento per nuove produzioni ad elevato budget, né per il piccolo né per il grande schermo: le case produttrici sono scettiche verso i grossi impegni.

E qui potrebbe venire qualche cocente delusione se, oltre che evitare i nuovi impegni, dovessero essere ritardati o addirittura abbandonati progetti che hanno preso forma recentemente ma la cui produzione non è ancora cominciata: gli appassionati di fantasy e fantascienza (generi che non si producono a buon mercato) hanno tutti i motivi per preoccuparsi della sorte di tante uscite che stanno aspettando.