Infine si sentì afferrare di nuovo e stavolta vide il sole e un grande prato verde. Ma, quella volta, non ebbe l’istinto di scappare, tanta era la paura. Le due facce erano ancora lì, ma il corpo dell’altro, adesso, era rinvolto in una sorta di gabbia fatta con lacci e ganci. Si lasciò infilare in un aggeggio simile, sempre col terrore che qualcuno le facesse del male, e si fece legare alla gabbia dell’altro. Poi vide che i due si salutavano ridendo e sentì l’altro cominciare a correre, correre e correre. Sempre più veloce, veloce, veloce. Anzi, velocissimo.

Infine il vuoto sotto di loro.

Il vento le fischiava nelle orecchie e il battito del cuore impazzito non riuscì a scandire il tempo che trascorse fino al momento in cui sentì armeggiare sopra di sé. A quel punto, non percepii più la presenza del faccione sconosciuto. Era sola. Sola e volante per la campagna. Ma non aveva le ali, essendo, irrimediabilmente, un’iguana.

Volava, volava, volava. E velocemente cadeva, cadeva, cadeva.

Chiuse gli occhi rassegnata a morire e non sentì che sopra la sua schiena qualcosa si stava aprendo.

Solo quando si sentì molto più leggera ebbe il coraggio di aprire di nuovo gli occhi e, voltando un po’ la testa, vide sopra di sé qualcosa di simile all’oggetto che stava sopra al faccione. Ma non era lungo e stretto. Era largo e tondo, e si riempiva d’aria quasi fosse una bocca affamata. Dondolava, dondolava, dondolava, e la caduta rallentò.

Cominciò a intravedere sotto di sé alberi e prati, poi stagni e sentieri in terra battuta. Siepi e fiori. Casette, e animali che la osservavano stupiti a muso in su.

Planò dolcemente e infine atterrò sull’erba umida  e profumata.

– Cacio miiio! – strillava Potassio. – Avete visto? Col paracadute, è atterrata.

– Mai capitata una cosa del genere – mormorava la testuggine Noce di Coccole. – Hai anche visto da dove è arrivato il paracadute?

– Era un’aquila – abbaiò Briscola la fulva.

– Macché aquila, era un deltaplaaano – miagolò Mimì la tigrata.

– Un deltaplano? – chiesero molte voci in coro. – E cos’è un deltaplano?

Mimì si fece largo e sospirò, guardando il cielo. – Un deltaplano è un uccello finto fatto dagli uomini per volare.

– Che sciocca – si intromise Briscola. – Voleva dire aeroplano.

– Miaaao! – strillò Mimì. – Non capisci proprio niente.

– Che maleducata! – bofonchiò Noce di Coccole.

– Un deltaplaaano è un paio d’ali che l’uomo si attacca addosso – riprese la gatta. – Poi corre, corre, corre e si lancia nel vuoto per volare.

Mentre Mimì parlava, l’iguana riconobbe nella descrizione del deltaplano quello che aveva provato volando, e il ricordo di ciò che era avvenuto la fece scoppiare a piangere.

Tutti le si avvicinarono ancora di più per rassicurarla, tranne la gatta che continuava a sghignazzare.

– Povera iguana! – la consolava la testuggine, sfiorandole la punta del muso con la sua. – I felini sono troppo maligni per comprendere la sensibilità di noi rettili. Ma vedrai che qui starai bene, non preoccuparti.

– Un’iguana col pavacadute! – continuavano a starnazzare i pappagalli in lontananza. – Un’iguana col pavadacute! Vuà! Vuà!

– Oh! Ma ecco Pallino col Pallino del Crocerossino – la rincuorò Noce di Coccole. – Lui saprà come prendersi cura di te. – E bisbigliò: – Sai, è un mago.

Davanti all’iguana si pararono due enormi piedi e due ginocchia piegate. Alla vista di un faccione simile a quelli che ben conosceva, ebbe l’istinto di fuggire; ma quello che, a detta della testuggine, doveva essere Pallino col Pallino del Crocerossino, la bloccò con le mani e la guardò con un largo sorriso che le fece rallentare il battito del cuore.

– Ciao, iguana – esclamò. – I pappagalli mi hanno detto come sei arrivata. Adesso pensiamo noi a te. Ma prima dobbiamo decidere come chiamarti.

– Sì, sì – gridarono in coro tutti gli animali. – Dobbiamo decidere come chiamarla.

Pallino col Pallino del Crocerossino se la sballottò un po’ da una mano all’altra, studiando il dorso e la coda a più riprese. Gli animali osservavano in silenzio la scena, curiosi di sapere come il mago avrebbe chiamato la nuova arrivata. Lui spinse il petto in fuori con un gran sospiro e la guardò negli occhi con aria risaputa: – Ma sai che sembri proprio una banana acerba?

– Sì. Sì. – borbottò qualcuno intorno a lui. – Proprio una banana acerba.

– Però ‘acerba’ suona male – proseguì Pallino. – Dunque ti chiamerò solo Banana. Banana l’iguana. – E gonfiò di nuovo il petto. – Ti piace?

– Uh! – proruppe Lucilla. – Dunque eri tu? Tu eri un’iguana?

Il drago annuì sconsolato. – Ebbene sì. Ero proprio io.

– E come hai fatto a diventare un drago così grosso?

– Eh.– Sospirò. – È una lunga storia.

– Ma io voglio che tu me la racconti.

– Potrei anche raccontartela – tentennò Banana lanciando gli occhi in aria.

– E allora perché non lo fai?

Banana rifletté un istante, poi rispose: – D’accordo. – Sospirò. – Poi, però, ricordami che devo dirti una cosa molto importante, prima che tu entri nella mia pancia, va bene?