Napoli. Tramonto. Pioggia battente.

Scrosci e raffiche di vento contro vetri.

Nel piano nobile d’un palazzo barocco del centro storico, s’apre a forza una finestra. Pesanti tende di broccato bordaux s’agitano e lasciano entrare un colpo di vento e pioggia nel salone immerso nelle penombre. Dal ripiano d’un mobile in legno intagliato e dorato, una foto schianta in frantumi sul pavimento in marmo. Tra le schegge di vetro, il ritratto d’una bella donna che sorride. Un lungo abito color avorio, un gran mazzo di rose bianche sul seno. A quel rumore, in una stanza accanto, una donna volta il capo. Dallo specchio della toletta il suo profilo appare, come sempre, perfetto. La donna posa la spazzola d’argento inciso sul marmo nero della toletta. I lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle, s’alza e va verso una porta a specchio. Nell’aprirla, un lampo grigio acciaio le cancella il volto. A passi lenti, tra le penombre, si dirige verso il salone. La vestaglia di mussolina rosa antico bordata di piume bianche le dà la leggerezza dei fantasmi. Dalla porta socchiusa della stanza da bagno proviene un vapore profumato di magnolia e sangue fresco; l’aroma tipico di Hamabilis, i suoi sali preferiti. La donna arriva nel salone. Si guarda intorno. Dalla finestra aperta viene un odore di terra bagnata e glicine. Le luci viola arancio del tramonto danno un riflesso fluorescente alle penombre del salone. La donna si dirige verso la finestra, allunga una mano, esita un momento, poi la lascia aperta. Voltandosi, lo sguardo le cade sulla foto caduta a terra. A vedersi ritratta al di là del vetro in frantumi, un sorriso le vela le labbra disseccate. Chi si ricordava ancora di Marianita Serpi Annoni, della sua voce capace d’infrangere il cristallo? Quella che era stata una delle regine più acclamate della lirica, altro non era che lo spettro di se stessa. Con l’incedere di un’antica vestale, Marianita esce dal salone e si dirige verso la stanza da bagno. Entra, si siede sul bordo della vasca in pietra bianca. Leggera, una mano affonda nell’acqua tinta del verde delle ali dei coleotteri, il colore di Hamabilis. Lenta, la mano si muove; l’anello d’oro e polvere di diamanti rimanda un luccichio di stella persa in fondo all’universo.

Uno schianto di vetri rotti!

Il vento aveva mandato in frantumi una finestra? Marianita, lo sguardo perso nel verde dell’acqua, resta a respirare l’aroma tiepido di Hamabilis. Sarebbe stato l’ultimo profumo che avrebbe sentito. Così aveva deciso.

Fuori, il temporale continua a infuriare. Lo sguardo di Marianita cade sul bordo della vasca di pietra. Un bianco così candido da far pensare a un cranio abbandonato da secoli al sole. Su quella pietra, brilla la lama d’un rasoio. Di lì a poco, Marianita si sarebbe immersa nel verde puro di quell’acqua, avrebbe addandonato il capo e respirato il profumo inebriante di Hamabilis. Leggeri come baci d’amante, avrebbe posato sui polsi due tagli con la lama affilata. Lasciate le braccia nell’acqua, avrebbe atteso che nel verde iridato si disegnassero volute rosse; con quell’immagine avrebbe abbandonato il mondo. Il mondo che da secoli aveva abbandonato lei. Attraverso il vapore dell’acqua, avrebbe visto il sangue fuoriuscire dai polsi come steli di piante carnivore che crescono e ramificano; le avrebbe seguite finché lo sguardo non si fosse sfocato e spento. Seduta sul bordo della vasca, cancellando ogni pensiero, Marianita scrive con le dita sull’acqua, in una lingua sconosciuta. Rumore di passi nel corridoio. La donna arresta la mano, volge il capo. Al di là della porta socchiusa, i passi si fermano. Nell’aria il vapore di Hamabilis vaga e impregna di sé ogni cosa. Il respiro della donna si fa ancora più leggero. La vestaglia di mussolina rosa antico le cade sul corpo senza un fremito, perfino le piume bianche sembrano scolpite nella pietra. Lentamente, la porta s’apre. Marianita interrompe il respiro.

Luce grigio acciaio; lo sguardo d’un adolescente.

Per molti era da galera, per alcuni da letto, per altri un rivale; per tutti era Vlady, 16 anni, rumeno, alto e forte. Scarpe da ginnastica, jeans slavati, t–shirt nera, un coltello in pugno. Marianita lo fissa un momento, poi, portando una mano alle labbra, scoppia a ridere. Una risata di cuore, liberatoria, come da anni, da decenni non le capitava. Vlady ne è sorpreso. Offeso.

– Perché ridi, vecchia troia? – dice con pronuncia stentata.

Marianita continua a ridere, e intanto l’osserva. Le gambe sono muscolose, come le spalle; deve aver cominciato presto a esercitare il fisico. Nelle mani è rimasto qualcosa del bambino. Le dita sono sottili, bianche, quasi fragili, eppure tiene il coltello con forza, la stessa d’un rapace che stringe la preda. Il petto del ragazzo si solleva cercando di ritrovare un respiro regolare. Dev’essersi arrampicato per il glicine che ricopre parte della facciata dell’antico palazzo. Come aura tattile, un po’ dell’odore del glicine gli è rimasto intorno. È bagnato. Jeans e maglietta s’incollano alla pelle, i capelli biondi alla fronte. Sulle guance, a momenti, scorrono gocce di pioggia che restano sul mento e poi scivolano giù, verso il collo bianco marmo.