PROLOGO

Ombre

Tenebre.

Il buio riempie il corridoio. Il silenzio avvolge l’aria immota nel suo abbraccio. Materializzatasi come dal nulla, una figura giunge a perturbare la stasi, scivola senza produrre alcun suono, senza che il silenzio si ritiri. Pare avanzare su un soffice tappeto di bruma oscura. Fende la tenebra senza fretta, ombra più densa di quelle che la lambiscono e paiono averla generata. L’oscurità si scinde al suo passaggio, vortica pigra sulle sue forme, si sfilaccia in drappi che aderiscono al corpo prima di rifondersi, alle sue spalle, con l’aria stagnante. La figura procede fino all’arco acuto al termine del corridoio, lo attraversa, s’immerge in una sala. Lì la tenebra è diluita da un raggio di luce carpito da una finestra prossima al soffitto.

La luna occhieggia incompleta da un cielo orfano di stelle. Il suo bagliore perlaceo sbiadisce in una tinta cinerea – il colore d’un teschio dissotterrato – quando filtra attraverso i vetri per sfumare l’anima nera della sala.

Una seconda figura siede su uno scranno avviluppato nelle tenebre, immobile come una statua. L’ombra entrata nella sala si ferma a fissarla per alcuni, lunghi istanti.

Sei ogni notte più splendida, Lucretia.” La sua voce è un sussurro frusciante che s’insinua tra le maglie del silenzio. “Sublime.”

Sul fronte opposto della sala, la figura seduta si muove impercettibilmente; accenna un inchino in omaggio alla lusinga.

Sublime” ripete l’altro tra sé, attorcigliandosi la parola sulla lingua per assaporarne il gusto. Leva il viso verso il fuso etereo di luce che scende dalla finestra, e per la prima volta l’oscurità si attenua sui suoi tratti. Due briciole di rubino si accendono sul volto e osserva la mezzaluna panciuta incastonata nel firmamento buio. I suoi lineamenti offuscati si distendono, le labbra sottili si schiudono. A simiglianza della luna nel cielo, sotto le braci degli occhi sorge una falce di denti bianchissimi su cui spiccano i canini acuminati. Il sorriso riflette la luce smorta per qualche istante prima di richiudersi. Anche gli occhi baluginano, poi si spengono. La figura intera si fa sempre più indistinguibile: lentamente pare liquefarsi nella tenebra muta.

Tutto ciò che resta è ombra.

Capitolo 1

“Qui, Mutio! Qui!”

Simone udì il richiamo di Thorval, ma non vi badò. Sollevò invece lo sguardo in direzione dell’uomo con l’uniforme porpora di Caeres. Gli veniva incontro con le labbra tirate sui denti gialli, tutto inzaccherato. Mutio tese il corpo in avanti, pronto all’azione. Aspettò che il soldato gli fosse addosso, che allungasse prepotente la gamba verso le sue caviglie. Solo allora si mosse. Fintò a sinistra e scartò repentino nella direzione opposta, scostando col piede la palla foderata di cuoio prima che impattasse la suola dello stivale avversario. Il soldato abboccò, non fece in tempo a stupirsi che Mutio era già alle sue spalle a correre veloce dietro la palla.

“Qui, Mutio!” urlò di nuovo Thorval.

Lui alzò gli occhi senza fermarsi. Vide il Nordico che correva a una decina di passi da lui. Un giovane dai capelli lunghi e neri gli stava addosso e lo strattonava. Thorval cercò di spingerlo via e quasi lo mandò a ruzzolare nel fango. Fissò Mutio senza smettere di correre, in attesa di ricevere la palla.

Mutio escluse subito l’ipotesi. Vedeva ormai vicini i due pali conficcati per terra. Troppo vicini.

Pestò con foga sul terreno scivoloso. Percorse una manciata di metri senza che nessuno lo ostacolasse. Quando tornò a sollevare lo sguardo, la porta era lì che lo aspettava. Si inchiodò d’improvviso: fletté all’indietro la gamba sinistra e, allorché la rilasciò, il collo del suo piede colpì con forza la palla, che ancora rotolava. La vescica avvolta nel cuoio compì una traiettoria tesa nell’aria, diretta verso una delle pertiche di legno. Era ormai sul punto di oltreppassarla quando un braccio enorme si levò a colpirla. La palla sbatté all’altezza del polso. Rimbalzò via, sul lato esterno del palo.

Mutio si piegò sullo stomaco e masticò un’imprecazione a denti stretti. Raddrizzò la schiena per scoccare un’occhiataccia al gigantesco figuro in mezzo alla porta, che aveva ancora il braccio destro teso verso il palo.

Ogre.

La creatura lo gratificò di un feroce ghigno di scherno. L’Alteano sputò a terra. Si era opposto con tutte le forze quando i soldati imperiali avevano proposto di far giocare un ogre mercenario a difesa della propria porta, nel ruolo che l’Alteano era abituato a definire di custode. Lo sguardo torvo dell’ogre in questione, condito da un paio di minacce bofonchiate dai suoi tre metri e passa d’altezza, lo avevano però zittito.

“Facciamo una pausa” propose Nevio alle sue spalle.

Nevio era il mercenario Alteano cui era venuto in mente di organizzare la partita di palla-mischia. Aveva coinvolto con entusiasmo sia Mutio che Thorval nella squadra di soldati della propria bandiera da opporre a una compagine imperiale. Il tempo di conformare le proprie regole a quelle degli avversari stranieri, e le pertiche delle porte erano state piantate. Nell’espressione afflitta di Nevio non restava traccia dell’arroganza ostentata all’inizio della gara. Ansimava con una mano sul fianco e tirava in continuazione su con il naso, da cui colava un rigagnolo di sangue.

Mutio si portò ai bordi del campo. Si asciugò la fronte sudata con l’avambraccio e ripensò stizzito all’intervento con cui l’ogre gli aveva impedito di mettere a segno il punto. Thorval lo avvicinò detergendosi il viso con uno straccio. Guardò Simone negli occhi ma non disse niente; si limitò a superarlo per lasciarsi cadere sull’erba. Mutio scosse la testa. Thorval era un ottimo corridore, discretamente veloce e instancabile. Era anche agile e di sicuro efficace quando si trattava di contrastare fisicamente l’avversario. Ma con la palla ci sapeva fare poco.

Gli manca la pratica, pensò mentre si massaggiava il costato colpito da una gomitata.

Il Nordico afferrò la ghirba ai bordi del campo e se la portò alla bocca per bere. Ne impugnò l’estremità con la mano destra, ma dovette aiutarsi con l’altra per sollevarsela sulla testa. Mutio vide con chiarezza la brutta cicatrice che gli deturpava il polso sinistro. Ormai da qualche settimana Thorval si era tolto le bende dalla ferita. Le dita si erano ristabilite dalla paresi dei primi giorni per giungere a flettersi pressoché del tutto. Ma i tendini recisi dalla roncola nemica non sarebbero tornati a saldarsi, per cui la mano sinistra di Thorval sarebbe sempre rimasta a mezzo servizio.

Anche Mutio si sedette a terra. Si puntellò con le braccia dietro la schiena e sollevò il viso accaldato godendosi il venticello fresco che spirava dalle pianure.