Come lavora il presidente di una squadra di calcio di provincia con grandi ambizioni?

Per riuscire a portare una squadra dalla serie B alla serie A il presidente investe il suo denaro acquistando giovani campioni (Kerry Washington), dei validi professionisti dal talento ormai consolidato (Jamie Foxx, Leonardo DiCaprio), ci aggiunge almeno un fuoriclasse (Christoph Waltz) e, per finire, dei professionisti in età avanzata, se non addirittura a fine carriera ma comunque ancora validi, per costituire un riferimento per la squadra (Samuel L. Jackson, Franco Nero, Don Johnson).

Molte volte il salto di qualità avviene e l'ex squadra di serie B milita orgogliosamente nella categoria superiore.

Questo è più meno quanto accade in Django Unchained  scritto e diretto da Quentin Tarantino.

Siamo nel 1858 e Django (Jamie Foxx) è uno schiavo negro che ci viene presentato in quello che è il suo status corrente, ossia in catene insieme ad altri schiavi, destinato alla vendita al mercato.

Sarà il dentista tedesco King Schultz (Christoph Waltz) a liberarlo dalle sue catene, come effetto collaterale della sua primaria esigenza di avere informazioni. Schultz in realtà è un cacciatore di taglie e lo schiavo è l'unico che può riconoscere tre ricercati di grande valore, i fratelli Brittle.

In cambio dell'aiuto Schultz, che non ama per niente la schiavitù, concederà la libertà a Django, che potrà così rimettersi sulle tracce della moglie Broomhilda (Kerry Washington), anch'ella venduta a diverso padrone, come un novello Sigfrid.

Comincia così il più classico dei viaggi dell'Eroe, con Schultz nel ruolo di mentore e amico del predestinato, colui che diventerà "la pistola più veloce del Sud".

La trama passa attraverso tappe canoniche di questo viaggio, tra le quali l'addestramento, prove più o meno difficili, momenti di ricompensa, senza mai dimenticare lo scopo della ricerca.

Con l'aiuto del suo mentore Django riuscirà, dopo essere diventato un efficace cacciatore di taglie, aver fronteggiato una sorta di improbabile e raffazzonato proto Klu Klux Klan e altre avventure, a rintracciare la moglie che si trova a Candyland, una famigerata piantagione gestita da Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), coadiuvato dallo schiavo di fiducia Stephen (Samuel L. Jackson), più infido del suo stesso padrone. 

Come finirà è intuibile, dato che di quest eroica si tratta. Meno scontato è il come gli eventi si svilupperanno.

La cifra stilistica è quella nota. Lunghi dialoghi, a volte tirati un po' per le lunghe, intervallati da scene di violenza parossistica e momenti di humor e battute, quando non di puro cazzeggio. A completare il tutto citazioni e inside joke rubati al cinema di genere in modo assolutamente sfacciato.

Come sempre Tarantino si compiace della sua capacità di gestione del mezzo e del linguaggio del cinema e dei movimenti di macchina.  Il montaggio di Fred Raskin e la fotografia di Robert Richardson assecondano in pieno il regista.

La colonna sonora riprende temi classici dello spaghetti western ai quali sono affiancati brani composti per l'occasione, non poteva mancare inoltre una canzone composta all'uopo da Ennio Morricone.

L'intenzione dichiarata è raccontare una storia di emancipazione dalla schiavitù ambientata nel profondo Sud con il linguaggio dello spaghetti western, omaggiandone uno dei titoli cult. Come già fecero decine di registi negli anni '60 e '70, del Django interpretato da Franco Nero nel 1966 rimane praticamente solo il nome. Django, con D muta, diventa un nome feticcio per raccontare qualcos'altro, ma il cui uso è sinonimo di una atmosfera.

Siamo davanti quindi non solo a una narrazione, ma anche a una vera e propria subcreazione di un mondo, senza pretesa di fedeltà storica.

Non è molto diverso dalla subcreazione di un mondo fantastico.

A rendere coerente in sé questa creazione contribuiscono da un lato gli inventivi costumi di Sharen Davis (Django vestito da paggio di colore blu è favoloso!) e le curate scenografie di J. Michael Riva e dall'altro una precisa e ben scritta sceneggiatura con dialoghi coerenti e credibili, nei quali, dato che stiamo parlando di uomini e donne del 1858, si usa la parola negro, e non "afroamericano" o "di colore".

Gli attori riescono a essere più che credibili.

Il talento di Christoph Waltz è immenso, ma Jamie Foxx ha le doti recitative necessarie per non farsi schiacciare, anche se ogni tanto sembra compiacersi in facili ammiccamenti allo spettatore. Leonardo DiCaprio sembra cristallizzato in una forma da eterno adolescente che neanche barba e baffi gli tolgono ma ben interpreta il suo ruolo di "gentiluomo del Sud" più nelle intenzioni che nella sostanza. Samuel L. Jackson è il meno credibile del gruppo, gigioneggiando senza freno nella sua macchietta di schiavo complice dei padroni.

Bella e nulla di più appare la Washington, nonostante la prova recitativa in lingua tedesca, confinata in uno stereotipato ruolo di fanciulla da salvare e con praticamente nessuna battuta significativa. Come e perché una schiava negra si chiami Broomhilda Von Shaft fa parte di quel gioco di subcreazione a cui ho accennato, e merita un plauso per coerenza narrativa e plausibilità.  Peccato per il ruolo ridotto al personaggio.

Carino è il cameo di Franco Nero (che recita alcune battute in italiano anche nella versione inglese!). Perfetto è Don Johnson nei panni del possidente Big Daddy a lui molto congeniali, più che altro per la provenienza geografica.

Tarantino ha dichiarato di considerare Django Unchained il secondo capitolo di una ideale trilogia inaugurata con Bastardi senza Gloria.

In comune con il precedente film, Waltz a parte, c'è l'omaggio senza freni al cinema di genere dei mestieranti italiani. Dopo il film di guerra e il western-spaghetti non è improbabile che Tarantino si possa cimentare in futuro con altri temi.

In realtà, l'ottima capacità di creazione di questo mondo, unita alla osservazione di quanto di comune al fantastico c'è in questo film, rendono curioso di vedere il modello tarantiniano applicato al fantastico di serie B, per esempio al peplum o alla fantascienza di film come La morte viene dal pianeta Aytin, diretto da quell'Antonio Margheriti che fu omaggiato con un inside joke proprio nel già nominato Inglourious Basterds.

Il film è consigliato sicuramente a tutti i tarantiani, che ritroveranno tutti gli elementi del suo cinema, riproposti ancora una volta in modo divertito e divertente, prendendosi sul serio tanto quanto basta. Tutti gli altri sono avvisati, questo è un film per il quale non avrete mezze misure, lo amerete oppure lo respingerete in toto. Da che parte sono io lo avete capito.