Non è facile per me recensire Sin City - Una donna per cui uccidere, seconda opera cinematografica diretta da Robert Rodriguez e Frank Miller ispirata all'omonimo lavoro grafico di Miller (Sin City, 300, The Spirit). Se dal punto di vista tecnico e artistico non c'è nulla che non vada nel film, distribuito da Lucky Red, non ho apprezzato il neppure tanto velato maschilismo di cui la storia è intrisa. Ma andiamo con ordine.

Pur senza rientrare a pieno titolo nella definizione di "film a episodi", Sin City - Una donna per cui uccidere è narrato a più voci: la vicenda inizia con Marv (Mickey Rourke), che si ritrova un sabato sera senza ricordi e con un omicidio appena compiuto; proseguiamo poi con il giocatore d'azzardo Johnny (Joseph Gordon Levitt), che ha tutte le intenzioni di vincere una mano a poker contro il senatore Roark (Powers Boothe); poi ritroviamo Dwight (Josh Brolin), che non riesce a resistere alla richiesta d'aiuto dell'unica donna che ha amato, la femme fatale Ava (Eva Green); infine Nancy (Jessica Alba), unico punto di vista femminile della vicenda, che vuole vendicare la morte dell'amato Hartigan (Bruce Willis) uccidendo il senatore Roark. Nonostante Dwight venga introdotto per terzo, è su di lui il focus principale della storia, è lui il vero protagonista di Sin City, come possiamo intuire già dal titolo, Una donna per cui uccidere. La donna in questione è Ava, una Eva Green decisamente in forma in questo periodo - recentemente ha furoreggiato nel TV show Penny Dreadful - che incarna in tutto e per tutto lo stereotipo della predatrice e donna fatale. Si è trattato di una scelta precisa da parte di Miller, che ha dichiarato nel corso della conferenza stampa di aver voluto tratteggiare la femme fatale definitiva con questo personaggio. Personalmente ritengo che per quanto Sin City sia un film targhettizzato in prevalenza al maschile sia ingiusto, nel 2014, presentare un'opera di fiction in cui gli uomini sono protagonisti e le donne se non possono essere vittime delle fantasie maschili finiscono per diventare le antagoniste. L'ossimoro dello stereotipo della femme fatale sta proprio nel fatto che vorrebbe essere una donna forte e senza dubbio la Ava di Eva Green lo è: ha un suo scopo nella storyline, non è semplicemente una "fidanzata" per il protagonista. Tuttavia proprio lei che non dovrebbe essere una donna oggetto finisce per esserlo utilizzando il proprio corpo e il proprio sex appeal. Una scelta fotografica molto interessante e senza dubbio consapevole è quella di alternare nel film al solito bianco e nero tipico dello stile di Miller il colore per sottolineare alcuni oggetti nella scena che hanno un significato particolare e devono attirare lo sguardo dello spettatore. Ebbene, quasi sempre sono alcuni particolari delle donne oggetto presenti in scena a essere colorati e questo avviene solo nelle scene in cui è presente l'uomo che le guarda con desiderio. Per esempio è a colori solo la testa di Marcie (Julia Garner) nelle scene in cui è presente Johnny, oppure le labbra rosse di Eva Green e il suo soprabito blu quando Ava sta seducendo Dwight. La stessa Nancy è a colori quando sono gli altri a guardarla e non nelle fasi finali del film, quando è lei a enunciare la storia. Certo, abbiamo anche il punto di vista di Nancy, ma mi viene da pensare troppo poco e troppo tardi. Non quando anche la Gail di Rosario Dawson, che insieme alle sue ragazze domina la città vecchia di Sin City, viene ridotta ad amante gelosa di Dwight. 

A prescindere dalla questione relativa ai personaggi femminili, la sceneggiatura del film, firmata da Miller, tiene bene, anche se la storyline di Johnny risulta complessivamente meno legata al resto della vicenda e finisce per inserirsi con minore organicità. Il cast è buono, tutti gli attori in parte, specialmente Mickey Rourke e Josh Brolin. Nel film fanno una breve comparsa anche la pop-star Lady Gaga in un piccolo ruolo, Christopher Lloyd che non ha bisogno di alcuna presentazione e i due registi del film, che recitano in una scenetta metanarrativa che vediamo attraverso uno schermo televisivo. Come in Sin City, la tecnica filmica utilizzata viene sfruttata al meglio e mette in mostra tutte le sue potenzialità mettendosi completamente al servizio della storia. La scelta del bianco e del nero, con i rari elementi a colori caricati di significato a livello simbolico non è un orpello formale ma è in tutto e per tutto funzionale allo storytelling, così come le scene violente e di nudo, che vengono sempre mostrate con una certa eleganza e mai con inutile crudezza. 

In definitiva non mi sentirei di sconsigliare la visione del film, soprattutto a chi ha amato Sin City e ama il lavoro di Miller. Tuttavia non griderei al capolavoro a soprattutto inviterei gli spettatori a riflettere sul perché - visto che non siamo più nel Medioevo - sia ingiusto oggi scrivere intenzionalmente una storia tutta al maschile in cui le donne possono essere solo vittime o l'Altro. Una questione su cui forse dovrebbe riflettere anche Miller. 

2 stelline e mezzo su 5

Pia Ferrara

Sin City: Un duro addio, la prima miniserie del 1991, era un esperimento, un virtuosismo nato dalla volontà di giocare con le soluzioni grafiche, con il bianco e nero portato all'eccesso. Frank Miller ha usato il genere noir, l'hard boiled che lo aveva già ispirato con successo con Daredevil. La miniserie e tutte le successive, arrivate sull'onda del successo della prima, sono ambientate a Basin City, chiamata emblematicamente dai suoi abitanti Sin City. Un luogo che è un condensato di New York e Los Angeles, due "capitali" dell'hard boiled. Due "giungle d'asfalto".

Il fortissimo intento autoriale è stato sin dall'inizio quello di trascurare dialoghi e storie perché sono solo un supporto labile alla fruizione, l'obiettivo era colpire il lettore da un punto di vista totalmente visivo.

La versione cinematografica, realizzata nel 2005 da Robert Rodriguez, nella sua fedeltà totale, sia per la resa visiva che per la storia non costituì una eccezione, ma fu a suo modo un interessante esperimento visivo. Così come questo seguito.

A Rodriguez si affianca alla regia anche Miller. I due stavolta non aderiscono in toto al fumetto ma propongono, oltre all'adattamento delle storie Una donna per cui uccidereUn sabato notte come tanti, due storie inedite, concepite per il cinema: Quella lunga, brutta notteLa grossa sconfitta.

Il risultato non cambia. A suo modo Sin City - Una donna per cui uccidere è un film con una forte intenzione autoriale. Gli autori sono due furbacchioni che sul mercato vendono bene la loro "autorialità". Come se ci fosse da vergognarsi di realizzare un prodotto che punta al mercato.

M&R, fedeli comunque allo spirito dell'opera originale, non giocano con gli archetipi, ma si baloccano con gli stereotipi, con personaggi tagliati con l'accetta: duri spietati, ma dal cuore d'oro, politici e poliziotti corrotti, puttane assassine, ballerine di strip bar di quart'ordine che sognano una vita migliore, dark ladies. Non manca nulla.

Quindi sgombrato il campo dalla possibilità di trovare, sul fronte della storia, un benché minimo segno dell'evoluzione della narrativa noir degli ultimi 50 anni, dobbiamo renderci conto che il modello di partenza è il pulp più scontato, non Raymond Chandler o Dashiell Hammett.

L'intenzione degli autori, bisogna ammetterlo, è riuscita. Il prodotto è esattamente quello che volevano realizzare i due furbacchioni, che con ironia e autoironia ammiccano allo spettatore in un momento di geniale meta-narrazione.

Pur riconoscendo che il film sia realizzato con perizia, il soggetto, o meglio le storie proposte, sembrano più adatte a una fruizione diluita, a una serie TV antologica che a un lungometraggio.

Quello che penso è che prima volta il gioco diverta, però la sua iterazione stanchi. Quello che manca stavolta è il divertimento. Perché un gioco e bello se dura il giusto.

Il divertimento di ogni singolo momento, di ogni scena bella da vedere, di ogni battuta, rimarrebbe identico se si evitasse lo stress e la noia dell'accumulo di stimoli visivi, di battute prelevate a bella posta dal pulp, di continui virtuosismi.

Da gustarsi in pillole, con un ottimo impianto home video.

3 stelle su 5

Emanuele Manco