È veramente la fine del viaggio. Arriva al suo completamento quel progetto che Peter Jackson iniziò nel 1995, quando cominciò a ragionare sulla trasposizione di Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, in un ciclo di film che avrebbe dovuto comprenderli entrambi.

Come sono andate le cose è noto, dapprima venne prodotta la trilogia ispirata al secondo romanzo, mentre Lo Hobbit rimase per molti anni nel limbo dei progetti eternamente in svolgimento. 

Un regista e produttore non timbra un cartellino, come uno scrittore se ha un progetto in corso, è sempre su quel progetto. Fatti quindi i conti Peter Jackson ha dedicato diciannove anni alla Terra di Mezzo ideata da Tolkien. Anni fatti di impegni più fitti, come i periodi di riprese delle due trilogie, le post produzioni e le campagne promozionali, e periodi in cui la produzione era ferma, e in cui il film era un progetto in background, se non a rischio di essere sospeso, ma comunque sempre un pensiero per la testa.

Un periodo alla fine del quale ci troviamo sei film, anche se narrativamente le due trilogie sono in realtà due film spezzati in tre parti.

Questo per dire che Lo Hobbit: la battaglia delle cinque armate non è da vedere come un film autonomo, bensì come la terza parte di un mega film chiamato Lo Hobbit.

Sin dall’incipit, che si apre esattamente lì dove il cliffhanger alla fine di Lo Hobbit: la desolazione di Smaug aveva lasciato la storia, con il drago diretto verso Pontelagolungo.

Chi ha letto il romanzo sa come andrà a finire, per la città e il drago.

Liquidata la questione comincia la storia che vedrà convergere verso la Montagna Solitaria, alle porte di Erebor, gli umani di Pontelagolungo, guidati da Bard (Luke Evans), gli elfi silvani di Thranduil (Lee Pace), gli orchi guidati da Azog (Manu Bennett), mentre la compagnia dei nani, guidata da Thorin Scudoquercia (Richard Armitage) cerca nelle sue gallerie la potente Archengemma, simbolo del potere del regno dei nani.

Testimone, ma anche attore nella vicenda, l’Hobbit Bilbo Baggins (Martin Freeman) che vorrebbe impedire un inutile spargimento di sangue e, insieme agli altri nani, riportare alla ragione un Thorin dallo spirito sempre più cupo e avvelenato dalla sete di potere.

Quando davanti alle porte di Erebor convergerà anche l’esercito dei nani, guidato da Dàin II Piediferro (Billy Connolly), la tensione si farà altissima.

Se non sapete qual è il quinto esercito non ve lo dirò io.

Quello che vi dico è che la battaglia non è l’unico elemento narrativo del film. Troveranno una risoluzione, o quantomeno un punto di svolta, altre trame lanciate negli altri film, come l’indagine di Gandalf (Ian McKellan) sulla rinascita del potere di Sauron, la sottotrama romantica della impossibile storia d’amore tra l’elfa "Mary Sue" Tauriel (Evangeline Lilly) e il nano Kili (Aidan Turner), il conflitto generazionale tra la visione di Thranduil e di suo figlio Legolas (Orlando Bloom) in merito ai rapporti con i nani e, più in generale, con il mondo esterno.

Durante i 144 minuti del film ci saranno scene importanti e risolutive per tutti i personaggi principali e verranno lanciati importanti ponti narrativi verso la trilogia di film precedente, la cui vicenda è cronologicamente posta sessanta anni dopo.

Missione compiuta quindi per Peter Jackson, che ha l’ambizione di voler lasciare ai posteri una esalogia tolkieniana compiuta. Così spiega anche l’espansione in tre film che la ridotta vicenda di Lo Hobbit ha avuto, per la cui sceneggiatura di Jackson ha attinto alle appendici di Il Signore degli Anelli, ispirandosi a esse in piena libertà.

L’impronta registica e produttiva di Jackson è molto evidente nelle scene d’azione, nella grande battaglia e nello scontro finale fra Thorin e Azog, ma sarebbe fare un torto a questo film se non individuassi in questo specifico episodio altri momenti significativi. Più che negli altri episodi, questo atto finale regala ad alcuni degli attori dei momenti per farsi valere.

Sopra tutti, con una prestazione straordinaria, metto Richard Armitage, che passa attraverso parecchi registri. Dalla cupa malattia che si impossessa del suo spirito, che pure ha dei momenti in cui il suo vero animo sembra affiorare (la scena in cui regala la cotta di maglia a Bilbo è emblematica in tal senso), alla caduta, alla presa di consapevolezza dell’abisso in cui sta precipitando, fino al ritorno, al risveglio dalla febbre che l’ha obnubilato, e alla sua attiva partecipazione allo scontro finale, e al suo epilogo.

Secondo me, se non si trattasse di un vituperato film di “genere” la prestazione di Armitage sarebbe indicata in coro dalla critica come candidabile a tutti i maggiori premi. Non l’ho vista in originale, pertanto non so se oltre alle dinamiche degli sguardi e delle posture, la prestazione vocale è allo stesso livello, ma poiché il cinema è soprattutto visione, quello che ho visto mi è sembrato comunque molto convincente.

Freeman è una piacevole conferma, regge il confronto con Armitage e duetta perfettamente con lui nei campo/controcampo che Jackson dedica ai loro dialoghi.

Tutti gli altri sono nella media richiesta dalla loro professionalità, come Lee Pace o Ian McKellen, mentre nel caso di Orlando Bloom ed Evangeline Lilly calo un velo. Hanno il fisico del ruolo, ma nulla di più. Si fanno valere Cate Blanchett, Hugo Weaving e Christopher Lee, la cui apparizione è breve ma intensa. Una menzione speciale va al convincente Ryan Gage, per il suo spassoso Alfrid Leccasputo, ovvero la "linea comica" della sceneggiatura, doverosa in un film che deve anche tenere d'occhio le aspettative degli investitori.

È la gestione degli attori il valore aggiunto di un film che tecnicamente aggiunge poco ai precedenti, se non forse per  una post-produzione che ha fatto tesoro delle esperienze passate, che ha proseguito la strada intrapresa nel secondo film, in cui erano state ammorbidite le asperità digitali del primo, dando alla fotografia di questo capitolo ancora più naturalezza, facendo perdere alla fotografia quella patina di televisivo che tanto fece discutere due anni fa.

Rimango dell’idea che il linguaggio cinematografico dell'HFR 3D proposto da Jackson abbia bisogno ancora di trovare registi che creino opere che non siano solo virtuosismi tecnici e produttivi, ma anche capaci di sfruttarlo in senso narrativo più compiuto. In tal senso stavolta è lo stesso Jackson ad aver costruito un capitolo che, fatta la tara di alcune parti che continuano a somigliare di più a un videogame, ha uno spessore cinematografico più solido.

La ridondanza a rimane ancora, allo stesso tempo, una caratteristica della visione cinematografica di Jackson e un suo limite. Jackson è un cineasta capace di compiere imprese produttive eccezionali, ma ne è talmente entusiasta da non riuscire a tagliare veramente al montaggio. Probabilmente, non fosse stato per la produzione, al cinema avremmo visto anche i 30 minuti promessi (o minacciati) della prossima versione estesa.

Sarà anche per questo che dalla visione di La battaglia delle cinque armate posso dire di essere uscito soddisfatto, di essermi commosso in alcuni punti, sia quelli già detti che nell’ascolto della canzone dei titoli di coda (The Last Goodbye interpretata da Billy Boyd), ma di essere anche stato provato dai suoi eccessi.

In ogni caso la trilogia di Lo Hobbit è un'opera che pur con i suoi limiti è, prima di essere un prodotto commerciale, un omaggio di un fan a una mitologia che ha forgiato il suo immaginario.

Come fan che si rivolge a un altro fan dico "Grazie di tutto Peter". Grazie per un risultato che già da solo suscita ammirazione: essere riuscito a mettere in scena quello che sembrava un sogno irrealizzabile.

Emanuele Manco

Se possiamo pensare che questa serie di film si sia stancamente trascinata sulle ali di un successo perdurante e praticamente inevitabile, se possiamo criticare la premiata ditta del clan di Peter Jackson per i tanti aspetti criticabili di questa serie (e ce ne sono...), d'altra parte ci si dovrebbe ricordare tutta l'avventura iniziata parecchi anni fa con La Compagnia dell'Anello, il primo film ispirato all'opera di J.R.R. Tolkien, se tralasciamo alcuni tentativi parziali ancora più lontani nel tempo. Tanti si sono dimenticati che, all'epoca, quello che l'onesto Peter Jackson ci offrì era sembrato per parecchio tempo un progetto irrealizzabile, tanti dicono che se ne sarebbe potuto fare a meno vista la mediocrità o gli errori e via dicendo. Forse però quello che abbiamo avuto non è così poco, a livello di emozioni, magari un po' sentimentali, e di spettacolo puro. La produzione di The Hobbit nella sua triplice incarnazione cinematografica ha avuto tanti problemi prima di vedere il via e dopo, purtroppo, ha sofferto di una iperinflazione di contenuti e di personaggi e di un taglio poco cinematografico, tanto che c'è da chiedersi se non sarebbe stato meglio farne una serie televisiva.

Probabilmente gli incassi del botteghino dicono di no. I film ispirati a Tolkien hanno ritorni favolosi, a dimostrare quanto trascinante sia il richiamo popolare di questa grande favola (favola coi suoi risvolti complessi per chi li vuole cogliere). Possiamo chiederci però se avremmo avuto un risultato migliore se la trilogia dello Hobbit fosse finita nelle mani di Guillermo del Toro, un regista capace di dare un taglio molto personale alla narrazione pur conservando la spettacolarità desiderata dal grande pubblico.

Ad ogni modo quello che ci offre questo Lo Hobbit: la battaglia delle cinque armate è una grande quantità di azione, che nei momenti migliori perde il ritmo da brodo allungato cui Peter Jackson ci ha abituato ultimamente per tornare a dei ritmi intensi e mozzafiato. La tecnologia 3D aggiunge qualcosa, anche se non sembra poi fondamentale, nonostante molte scene siano girate in maniera da enfatizzarla. Una buona parte degli attori che hanno partecipato alla lunga saga di questi sei film riesce a tornare per una comparsata, ma le interpretazioni davvero di qualità sono quelle di Martin Freeman e Richard Armitage, quest'ultimo teso fra la sua natura di coraggioso e benevolo comandante e la torbida influenza dell'oro. Una menzione meritano anche i truci orchi capitanati da Azog (Manu Bennet). Un finale in parte già noto, per chi ha letto il libro, ma che offre comunque delle sorprese proprio per il grande rimaneggiamento che ha avuto la trama e l'introduzione di ulteriori filoni narrativi: avremo così trionfi e tragedie, che concludono una grande epica della Terra di Mezzo.

Bruno Bacelli