La teoria del tutto è una storia di sfide vinte. La vicenda che narra è quella di Stephen Hawking e della sua prima moglie Jane Wilde.

Il film inizia proprio con l'incontro tra i due a Cambridge. Stephen (Eddie Redmayne) è un dottorando in cosmologia, socialista ateo, Jane (Felicity Jones) una studentessa di lingue e letteratura, credente anglicana.

Quello che è in agguato per i due giovani è un destino non facile: Hawking è una mente brillante spronata dal suo docente, Dennis William Sciama (David Thewlis)  a cercare il supporto matematico alle teorie sull'origine dell'universo.

Ma l'incontro tra i due innamorati non è l'unico elemento presente sin dall'inizio nella narrazione del film diretto da James Marsh: da subito, in modo dapprima sottile, Stephen riscontra una difficoltà via via più evidente a controllare i suoi movimenti. La diagnosi sarà senza appello: una malattia del moto-neurone, il morbo di Lou Gehrig, è destinata a bloccare ogni impulso volontario di movimento fino a destinarlo, entro due anni, a morte certa.

Quale impulso può provare un giovane di 21 anni davanti a una simile prospettiva? Di certo è forte la tendenza ad arrendersi, a isolarsi. Ma Jane non ci sta. 

Sposerà Stephen, sarà per lui uno sprone fondamentale, un supporto immancabile che gli consentirà di conseguire il suo dottorato, davanti al suo mentore Sciama, coadiuvato in commissione d'esami, e scusate se è poco, da Roger Penrose e Kip Thorne; gli darà tre figli e baderà a lui sacrificando molto di se stessa, praticamente tutto.

Non è una santa Jane Hawking, ma una donna innamorata che non si arrende. L'approccio ironico e anche molto pragmatico di Stephen sulla sua infermità ha sicuramente fatto parte dell'equazione, ma è chiaro che la condizione necessaria sia stata la presenza di Jane e il resto sia stata la parte sufficiente. La più grande vittoria dei due è stata l'assoluta normalità anche dell'evoluzione della loro storia d'amore, a dispetto di ogni "buonismo".

Già questa storia umana sarebbe stata degna di essere raccontata, Hawking a dispetto della prima diagnosi è ancora vivo e vegeto e comunica con il mondo grazie alle tecnologie di sintesi vocale, ma non è solo questo il suo risultato. Il suo apporto alla scienza e alla sua divulgazione sono lì a testimoniarlo.

Marsh si trova quindi a raccontare la storia su parecchi piani: la storia d'amore, le percezioni dell'ambiente circostante di Hawking, la rappresentazione cinematografica del suo lavoro scientifico. E non rinuncia a nessuno.

Gioca con i campi e i controcampi nei dialoghi tra i personaggi, sfruttati per mostrare e gli eventi e le situazioni per evitare gli eccessi di spiegazioni. Molte domande sulla vita privata e coniugale trovano risposte semplici proprio da queste interazioni.

La variazione della profondità di campo, unita  giochi di prospettive e di luci, diventa fondamentale per il racconto in soggettiva della malattia.

La scienza è parte del cast del film, quasi una terza protagonista. Lo sono i buchi neri la cui forma ipotizzata da Hawking ritorna costantemente, nei momenti più inattesi, per esprimere il senso della scoperta scientifica, che non è invenzione o fantasia, ma solo capacità di squarciare il velo della tenebra, di vedere poco più in là di altri.

Non è un virtuoso dell'immagine Marsh, ma sicuramente è un ottimo narratore per immagini, con perfetta padronanza della grammatica e della semantica del cinema.

La scienza, in forma divulgativa, entra anche nel dialogo, con scioltezza, perché persone di scienza e di cultura di questo parlano tra loro, e più semplicemente ne sanno parlare, più vero risulterà quanto dicono. Una sintesi che non è mai semplificazione o approssimazione.

Una importante precisazione a questo punto: ho visto il film in lingua originale. Spero prima di tutto che gli adattatori dei dialoghi si siano avvalsi di consulenti scientifici, perché il rischio di banalizzare è in agguato.

Un altro problema che ormai si pone davanti agli spettatori, che hanno sempre più occasione di ascoltare la recitazione in lingua originale, è di valutare dal doppiaggio una prestazione attoriale che è corpo e voce. 

Corpo perché Redmayne è vero, autentico e straordinario, sempre credibile nei movimenti, ma anche voce perché Hawking non ha sempre “parlato” attraverso un sintetizzatore vocale, e Redmayne è perfetto anche con la voce biascicata. Mi auguro che la voce italiana sia all'altezza.

Felicity Jones è brava e si vede che l'affiatamento con il collega sul set è stato totale. Come quasi sempre capita nelle produzioni inglesi, il livello dei comprimari rasenta anche in questo caso la perfezione, dal bravissimo Thewlis ai convincenti Charlie Cox ed Harry Lloyd, senza dimenticare Emily Watson.

Le scenografie, con le rappresentazioni ben calibrate degli interni casalinghi e universitari, contribuiscono alla perfetta scansione del respiro narrativo, che ci porta dalle lavagne del 1963 ai computer dei primi anni '90, dalla fòrmica alla riscoperta del legno.

La teoria del tutto è il primo film da vedere se volete cominciare con un ottimo film il vostro anno cinematografico.