Carillon
di Scilla Bonfiglioli
L'idea del carillon per il nipotino gli era venuta camminando nella nebbia.
Il bambino e la musica erano così uniti, nel vecchio cuore di Pal, che gli era parso strano non averci pensato prima.
Sapeva anche quale musica usare.
Da una manciata di notti non prendeva sonno. Si rigirava sul fianco, rotolava sul ventre e poi si sdraiava a guardare il soffitto. La dissonante melodia che lo tormentava non arrivava da fuori, ma gli cresceva nel petto spontanea come un fiore sulla scogliera.
Oltre i vetri, la luna rendeva Bergen una città di folletti, con le case sghembe dai tetti a punta che si specchiavano spettrali sul mare piatto. Le finestre parevano occhi e le porte erano bocche, aperte in un grido muto.
Una metafora banale, per un giocattolaio, ma il vecchio Pal era stanco. Sentiva la pelle sotto agli occhi tirarsi come pergamena usurata. Immaginava le occhiaie scendere fino agli zigomi e sciogliersi sulle guance nell'icona perfetta della fatica.
Ammucchiati sugli scaffali, i giocattoli lo fissavano impietosi. Bambole dagli occhi sgranati nel buio; orsi intagliati nel cui ventre si aprivano cassetti per orecchini, anelli e piccole gioie; cavallucci. Soprattutto bambole, però. Tutte con lo stesso viso.
Di solito gli davano conforto, ma da qualche notte a quella parte lo mandavano ai matti. Insieme a quella musica tremenda che gli infestava le orecchie.
Cominciò tutto una sera, mentre andava alla taverna di Sigurd. La nebbia gli strisciava fino alle ginocchia, coprendo i giardini pubblici come un sudario.
– Miseriaccia – borbottò. Si massaggiò le spalle scacciando il freddo lattiginoso. Intorno, gli alberi protendevano i rami, quasi in cerca di aiuto. - Ah, vecchio Pal, stai davvero perdendo la testa.
Per farsi coraggio, intonò la vecchia canzone piena di parole sporche che sentiva da sua madre quando era bambino. Lui puliva le scarpe dal fango e lei in cucina lavava i piatti dandogli le spalle, spostando il peso da una gamba all'altra e seguendo il ritmo. |