Il Bastone
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Il bastone non appariva a occhi terrestri se non come un comune, nodoso e contorto ramo di indistinta specie arborea. Vagamente incurvato verso destra sulla cima, ruvido e rugoso al tatto. Il filosofo di mezz’età cui si accompagnava, indubbiamente un filosofo, in ottemperanza ad espliciti tratti somatici, strideva contrastivamente, per l’eleganza e la raffinatezza del personale, con l’evidenza selvaggia e disadorna del manufatto. Innegabilmente si trattava di un manufatto, che curiosamente non recava tracce di una precedente appartenenza al mondo vegetale, dando in qualche imperscrutabile modo l’idea che non da una pianta fosse stato tratto, ma che fosse germogliato spontaneamente dal terreno, non prodotto da seme, ma generato in tale aspetto privo di crescita.
Infine, lo schiavo, triste apparenza di forma vagamente umana, meschina, grigia e sporca, avvinghiato al bastone, con mani nodose e contorte, più del legno che abbracciava con dita convulse. Sembrava il ritratto dell’inferno, triste e pauroso, opaco nella miriade di colori brillanti e sfaccettati che solo l’inizio della primavera è in grado di donare ai mortali, nelle mille varietà del rosa e del bianco, create dal vento e dal riflesso della luce.
Il viale era inondato di pruni, di tonalità gentili, profusi di gemme e di fiori, lievemente mossi dal vento, grazie al quale si intravedeva appena, sul suolo, quel tappeto di petali ancora solo promesso dalle piante, sul lastricato bianco opaco dell’opera dell’uomo. Pochi passeggiavano sul viale a quell’ora. L’ora del pranzo, calda e limpida, induceva giovani voci a vagare per giardini profumati.
Il filosofo e lo schiavo, il bastone a dividerli, camminavano sulle pietre, senza che alcun suono li accompagnasse. Timido, un gatto, le zampe bianche ingiallite dal terriccio, intento ad annusare gli effluvi della primavera, alzò il muso e il titanico naso al loro cospetto. Le orecchie nervose, captando un messaggio nascosto nello sguardo tormentato del filosofo, saltò verso il giardino, in cerca di cipigli più gentili. Non pareva certamente solo. Perfino un ragno, lietamente libero dal gelo che aveva attanagliato la sua dimora per tutto l’inverno, interruppe il fiero pasto, ritardando l’agonia della bestia catturata, e si nascose in luoghi più sicuri.
Come se il meritato tepore della primavera si sciogliesse in tacito timore davanti al lurido aspetto del fuggiasco maledetto.
Sottile, la sensazione di un sortilegio malefico avvolgeva lo schiavo, privato nel volto di umana espressività . Il tormento riflesso nell’ombra del filosofo strideva col cristallino riverbero dei raggi del sole nell’acqua di una fontana.
In lontananza un lampo si abbatté sul frontone del tempio e, dalle merope della fiancata, cadde con grande fracasso la statua di Kore. Al suono sinistro un brivido scosse lo schiavo, unico baluardo di viva umanità rimasto nel guscio. Ma le voci, allegre e scherzose, che avevano attirato il gatto, accompagnate da deboli e lontani cinguettii, non si avvidero della minaccia, risuonando vivaci in consonanza col mondo.
In direzione opposta, due giovani dalle candide tuniche percorrevano il viale, incuranti della stagione e di ogni suono, silenziosi, e splendidi nella loro divina perfezione, un uomo e una donna, uniche forme di vita non corrotta sulla strada lastricata di Ourizon. La primavera scivolò lungo i muri, perdendosi rapidamente nel tremante soffio di una gelida serata invernale, limpida e pura, scura e trapunta di aghi lucenti.
Incuriosito il gatto, al riparo in cima ad un muretto avvolto nella vegetazione, ebbe la sensazione che il gelo e la notte fossero ammantati attorno ai due giovani ...alla femmina... e che ne emanassero, come se ella fosse la loro padrona...signora della notte, del freddo, e della morte.
- Persephessa.- Una sibilante sensazione di minaccia condusse questo ignoto suono alle nari del felino, che ispirò minaccia e pericolo, ed arruffando il folto e cangiante pelo della schiena, con un’occhiata di fosco disprezzo, saltò nuovamente in quel fragrante e morbido giardino, in cui spirava ancora Zefiro, al suono di allegre voci giovanili.
Ma il cupo e sibilante suono, Persephessa, rimase sospeso ed aleggiante nel buio limpido e sereno di una notte invernale, per tutta la via in cui solo in lontananza risaltava il tremolio di una lampada, o forse di una finestra sul giardino. Il suono sembrava esalare attorno alla fanciulla, creando onde e spirali attorno al suo corpo, come un mantello intessuto d’ombra scosso dal vento, aleggiante e fugace, e pareva che giungesse al suo capo, tra i capelli intrecciati, nella forma di un diadema, elegante, raffinato, semplice, ma tragico come la sorte.
Lo schiavo si accasciò, convulsamente aggrappato al fetido bastone, tremando e soffocando nell’inutile sforzo di un respiro che sempre più gli mancava, osservato con scherno dall’imperturbabile sagoma del filosofo, incapace di provare dolore, piacere, sentimento.
- Uccidili.-
- Persephessa .-
- Uccidili. – l’etere stesso, impregnato di sottili, e potenti, parole, pronunciate in un idioma arcaico, perso nelle nebbie del tempo dalla collera del Dio, sprigionava faville e sbuffi di vento, in una profonda e intima ribellione, inconciliabile con la sua stessa natura.
Nella morsa della sua agonia, la falena ancora rimpiangeva l’allontanamento sgomento del ragno, fuggito in quel giardino in cui ancora presiedeva la primavera.
Apparve supremo, agli astanti interessati, lo sforzo dello schiavo per ricomporre le sue povere membra e mantenere una parvenza di orgoglio. Non fu che un istante. La volontà , concentrata sul bastone, non gli fu sufficiente per riconoscere il momento del trapasso.
Il bastone non cadde al suolo, nonostante non esistesse più uno schiavo a reggerlo, sostituito da un mucchietto informe e patetico di polvere, grigia, sporca, ben presto scossa lontano dal soffio di un ghiacciato, tagliente vento del nord, a cui lo Zefiro tranquillo e tiepido del giardino aveva ceduto il passo, per rispetto, per forza, per comprensione. La polvere scivolò lontano e null’altro rimase.
Tranne il filosofo e i due giovani, separati da un bastone nodoso e curvo verso sinistra, indifferenti alla sorte dello schiavo, indifferenti a tutto, tranne al bastone. Il filosofo affrettò la presa, legando saldamente a sé l’oggetto, schernendo con gli occhi la fanciulla, già protesa in avanti nell’atto di recuperarlo. Nuovamente, un lampo nel cielo attraversò le stelle in direzione del tempio. Nessun tuono accompagnò la luce e nessuna statua crollò al suolo.
- Verrà il mio momento, per usarlo.- voltandosi, il filosofo proferì nuovamente parola.
- Avrai un’eternità per gioirne.- commentò il giovane.- Sarà l’eternità la tua pena, come altri prima di te. Vivere e morire.- guardò verso il tempio, coronato di lampi, e allungò il braccio a cingere le spalle della giovane. Insieme, incamminandosi verso la collina, portarono l’inverno con loro, regalando alla via e a Da Mater una nuova parvenza di primavera. Seccato, ma indifferente, il filosofo strinse il bastone e sparì nel mondo.
Gli parve di aver sognato per una vita intera, o forse per molte, svegliandosi solo nel cuore di alcuni inverni, terribilmente freddi, per spiare i popoli invecchiare e cambiare, soffrire e morire. Il bastone amava la morte, lo nutriva e lo consolava, somministrandogli l’energia per rimanere in forza. Sottraeva vita ovunque potesse riconoscerne una sembianza, inebriandosi di stragi, ubriacandosi di guerre. Ormai, le sembianze di filosofo erano scivolate nel baratro dell’oblio, cedendo spazi vitali all’opera di un pittore folle e compiacente, che amava dipingere la vecchiaia più vuota e crudele, incorniciata da occhi freddi e indifferenti. Il vecchio aveva piena coscienza di dover attendere il giusto turno, come il lungo corso degli astri nel carro dello zodiaco, pur lungo e monotono, ma circolare e prevedibile. Come si nutrisse, non avrebbe saputo dirlo; con amarezza e cordoglio, paura e ira, trasmesse dal bastone, legato indissolubilmente a mani che nulla più avevano da invidiare alle nodose estremità di uno schiavo scomparso da tempo. Il bastone. Certamente non era il male. Il male che vive dentro l’uomo, come aveva mostrato la cacciata dal Paradiso. Il vecchio immaginava, in quei lunghi sogni che duravano anni, lustri, forse secoli, quale bene avrebbe fornito al mondo, ma senza gioia, senza partecipazione, con l’indifferenza di chi compie un’opera programmata per necessità . Egli non provava nessun sentimento, nemmeno dopo i lunghi stimoli delle morti bevute dal bastone. Lamenti di anime vive e morte, pianti e richiami, rassegnazione e lotta, tutto rinchiuso in una verga lignea di ignota origine, condotta per il mondo da un semplice, debole vecchio.
La sensazione giunse dopo molti sogni. Fu un mistero subdolo e profondo ad insinuarsi nel suo cupo animo, quando nuove stelle, di variegate luci, solcavano i cieli notturni, quando nuovi colli si ergevano sulla terra e sul mare, squadrati e piatti, lucenti come il metallo. Il tempio ormai non era più e molte anime sarebbero passate attraverso il bastone prima che la Persephaessa riuscisse a recuperare quanto le era stato sottratto. Il mondo gemette scrollandosi di dosso un animale fastidioso, e allora il vecchio comprese che il suo momento era finalmente arrivato: immortale relitto di un patto inumano, osservò, finalmente sveglio, il mondo e scelse come propria dimora il regno della morte. Vita prima della morte. Forza prima della debolezza. Viaggio prima della destinazione. |