Alberto mi illumini sulle radici esoteriche del fantasy lettone? (scherzo per rompere il ghiaccio; captatio benevolentiae).

Nessun problema. Però bisognerebbe prima andare alla ricerca delle origini del fantasy birmano, perché tutto inizia da lì. Ma oggi non ne ho voglia. Alla prossima magari.

Ok, ma tu hai una propensione per il fantasy esotico e subisci la fascinazione dell’Oriente. Era il 1995 e pubblicavo su una rivista ormai scomparsa, Shining, il racconto Monteczuma, piazzato al concorso Lovecraft. Usciva poi Mekong, e dopo ancora altri racconti d’ambientazione esotica. L’Oriente è già ‘fantastico’ per te. Quanto conta l’ambientazione?

Diciamo che il fantasy di stampo classico non mi ha mai attratto in modo particolare (a parte Il Signore degli Anelli che ritengo apra e chiuda qualcosa di inimitabile). Insomma, il mio pensiero ricorrente (banalissimo se vogliamo) è: ma perché devo perdere tempo a inventarmi un mondo quando quello reale, e mitologie annesse, mi mette a disposizione tutti gli scenari possibili e immaginabili? Preferisco lavorare su ambientazioni esistenti o esistite ma non perché ciò sia più facile, anzi, ma perché da autore che proviene dalla fantascienza il concetto di “verosimiglianza” mi è rimasto nel dna. E comunque, siamo davvero sicuri che un personaggio per risultare appetibile al pubblico debba per forza chiamarsi Valhemmonjiir e vivere nel regno di Kuysjerritt? L’Oriente poi, per mia storia personale, mi ha sempre affascinato perché culturalmente è qualcosa di così diverso da lasciare stupefatti. A volerne di spunti.

Se dico Alice nel paese delle meraviglie cosa ti passa per la mente? Ti piace il genere fiabesco?

Chissà perché ho l’impressione che non sia una domanda buttata là a caso. Mai avuto rapporti particolari col genere, e con Alice ho incrociato la penna soltanto in un’occasione, come ben sanno i lettori di Fantasy Magazine. E non è finita molto bene. Per lei intendo.

Il nuovo romanzo in uscita recupera atmosfere e paesaggi orientali, e ci offre una rapida panoramica di tradizioni giapponesi. Si tratta di un’avventura epica che coinvolge quattro protagonisti: Toshi, un ragazzino figlio di una strega che è in grado di vedere e comunicare con i Kami, che è anche il titolo del libro. Ci spieghi chi o cosa sono?

I Kami sono spiriti (famigliari o no) e possono essere sia persone che animali o cose. Gli scintoisti credono che essi possano influenzare la vita degli esseri viventi e il loro muoversi tra cielo e terra li rende particolarmente adatti a entrare in contatto con gli esseri umani. E Toshi, suo malgrado, ha questa capacità.

Chi è lo scrittore?

Puoi dirci chi sei? Dove sei nato, dove vivi, cosa fai oltre a scrivere?

Sono nato a Tolentino, Marche, e mi ostino a vivere lì. Oltre a scrivere sono libero professionista, leggo ogni momento che posso (che ovvietà) e inseguo Samuela, la mia ragazza, in giro per rocche, castelli e qualunque cosa abbia una salita per arrivarci. Quanto al “chi sei” la vedo dura. Mi limiterò a dire che sono un Sagittario, quindi con la testa fra le nuvole, poco pratico, che ama stare in compagnia e, aggiungo, che non può fare a meno di scovare il lato fantastico delle cose. Inoltre non sopporto gli ipocriti e chi mi scruta dicendo: “Ma tu scrivi quella roba là…?”

Come riesci a conciliare la tua attività di scrittore, con il lavoro, la famiglia, figli ecc. ecc.?

Non avendo ancora una famiglia mia posso dire di essere avvantaggiato. Resta il fatto che trovare tempo per scrivere, non potendo permettermi di farlo come professione, a volte è un’impresa. Ma suppongo sia solo una questione di volontà, e finché ne trovo…

Come scrittore, come organizzi la tua giornata lavorativa? Ogni scrittore ha una sua ritualità nello scrivere, qual è la tua?

Molto semplice: vivo nel caos e nella disorganizzazione più totale. Procedo a strappi, scrivo quando capita e mai per un’ora di fila perché possiedo una soglia di concentrazione simile a quella che può avere un bambino davanti a un’intervista di Marzullo. Ma anch’io spesso sono costretto a razionalizzarmi, e diciamo che scrivo meglio quando ho un termine di consegna o qualcuno che mi pressa; allora mi organizzo, trovo risorse inaspettate, rimugino in continuazione finché idee e scalette ipotetiche non si materializzano, poi comincio a scrivere rinnegando buona parte di quel che ho pensato in precedenza. Tanto per capirci, nessuno dovrebbe dirmi “Scrivimi questa cosa quando hai tempo”. Sarei capace di presentargliela dopo un anno; ma se invece mi dicesse che serve di lì a tre giorni… Te l’ho detto, sono un Sagittario.

Senti di avere raggiunto qualche traguardo?

Quello più importante: aver avuto la possibilità di far leggere quasi tutte le mie storie.