Silvana De Mari non è scrittrice che risparmi la crudezza ai lettori, anche ai più giovani. La sua tetralogia  è intrisa di episodi dolorosi, a volte addirittura atroci, che però la rendono realistica e le donano spessore narrativo.

Tuttavia Io mi chiamo Yorsh supera, in crudezza, tutti e quattro i libri precedenti. Perché laddove nella tetralogia la crudezza era stata episodica, qui è un filo continuo e inesorabile che toglie il respiro e riempie di angoscia. Perchè Io mi chiamo Yorsh si apre su un teatro orrorifico di miseria e di malattia degenerativa, quest'ultima evidente riflesso dell'esperienza personale e professionale della scrittrice e  fattore per cui, specialmente se si è vissuta un'esperienza analoga (e ancora di più se in giovane età come accade al protagonista), l'immedesimazione diventa dolorosamente totale, al punto da essere tentati di chiudere il libro per non essere costretti a rivivere il mostro di certi ricordi. E, infine, perché poi il volume prosegue con una serie di crudeltà che invitano a ponderare quanto possa diventare meschino l'animo umano se non viene costantemente 'annaffiato' con il giusto pane e, soprattutto, con il giusto companatico.

Anche così, però la narrazione elargisce a piene mani il caratteristico sense of humour che aveva punteggiato le storie precedenti e dunque si riesce persino a sorridere, anche se un po' a denti stretti. Ma soprattutto, e questa è la ragione fondamentale per cui leggere il libro, si resta a bocca aperta ogni volta, e sono tante, che la De Mari ci pone davanti a una riflessione sulla vita, sul senso della felicità e su quello del dolore, perché le sue considerazioni partono dal banale quotidiano ma scavano molto in profondità, approdando a lidi insoliti e, al tempo stesso, di una logica così lineare che stupisce il fatto di non averci mai pensato prima. E alla fine sono queste riflessioni che permettono di scostarsi dall'orrore narrato senza bisogno di allontanare fisicamente il libro.

E poi c'è la poesia: la scrittura della De Mari sa essere davvero poetica, come ad esempio quando descrive il mare attraverso il racconto di chi non l'ha mai visto e dunque ci fa assaporare con occhi completamente nuovi e pieni di stupore qualcosa che avevamo finito per banalizzare per il solo fatto di averlo sempre sotto al naso. Dimostrandoci così che, oltre l'apparenza e alla scontatezza, si celano le mille sfaccettature della Bellezza capaci di rivelarsi unicamente all'occhio di coloro che sanno porvisi dinnanzi con la meraviglia della prima volta.

Trattandosi di un racconto a flash back, lo stile, specialmente nei primi capitoli (dove si incontra anche qualche ripetizione concettuale), risulta un po' appesantito. Tuttavia il libro prende man mano quota e l'effetto riesce ad alleggerirsi e a risucchiare il lettore nella vicenda.

La trama ci permette, fra l'altro, di incastrare un altro pezzo nel mosaico raffigurante del mondo che la De Mari ha saputo costruire attorno alla sua epica saga: scopriamo così il perchè della rovina degli elfi e della decadenza del mondo degli uomini, sprofondati in un'era che pare un incrocio fra la shoà e le distopie di 1984 e Farenheit 451. Un'epoca, insomma, al cui confronto il nostro Medioevo più basso sembra una fresca passeggiatina di salute. Eppure, sotto la coltre nera e angosciante, la scrittrice dissemina qua e là piccoli riferimenti che, nel lettore già a conoscenza dei successivi sviluppi, infondono il senso della speranza del riscatto che egli sa giungerà inesorabile. O, meglio ancora, infondono la percezione che, per dirla con le stesse parole dell'autrice "la vita è un arazzo immenso dove, nel momento più cupo e atroce, da qualche parte, una spanna sotto la terra, i semi che trasformeranno il mondo in un giardino stanno già cominciando a germogliare".

Io mi chiamo Yorsh non è, dunque, un libro per ragazzi come poteva essere, pur con la sua dolorosità, L'Ultimo Elfo (e del resto non sono più libri per ragazzi nemmeno il terzo e il quarto romanzo della saga), bensì una trasposizione metaforica e adultissima del male di vivere e, al tempo stesso, del miracolo della vita. Uno spaccato in chiave fantastica sul bizzarro, spesso incomprensibile e a volte amaramente ironico mondo degli opposti in cui siamo immersi, e nella cui conciliazione è riposto il segreto, e anche il gusto, della nostra esistenza.