Aelis, Vevisa e Breu vivono al Villaggio Alto, un tranquillo e isolato paesotto nel quale sembra non accadere mai nulla, e l’evento più importante che si si possa attendere è una festa di paese con tanto di competizione sportiva. Questo almeno fino a quando qualcuno venuto da lontano non porterà morte e devastazione e non sconvolgerà per sempre la vita dei sopravvissuti. Comincia così, con una delle situazioni iniziali più frequenti della narrativa fantasy, Risveglio, primo volume della trilogia Terra ignota di Vanni Santoni. A rendere ancora più tradizionale la sua storia ci sono un prologo ambientato parecchi anni prima rispetto agli eventi principali del romanzo la cui funzione diviene chiara solo col tempo e una trama che presenta la classica struttura della quest con i vari messaggeri, mentori e guardiani della soglia.

Fin qui nulla di male, Santoni si muove all’interno di convenzioni già ampliamente utilizzate dal genere, ma che sia ancora possibile creare opere originali e affascinanti pur partendo da situazioni ed elementi convenzionali lo ha dimostrato Patrick Rothfuss con il suo Il nome del vento, pubblicato non tanti anni fa. Santoni però non è Rothfuss, e la sua rielaborazione di archetipi ed elementi caratterizzanti del genere sembra più una dimostrazione di come non si debba scrivere un romanzo che quel romanzo serio che invece vorrebbe essere.

Intendiamoci, l’autore è ben conscio che la sua prova letteraria è ben diversa dalla “letteratura seria” di cui in genere si occupa e per la quale ha ricevuto anche diversi apprezzamenti di critica, tanto è vero che sulla copertina ha fatto seguire il suo nome dalla sigla HG per marcare uno stacco, il voler essere quello del fantastico un percorso parallelo e non coincidente con quello più propriamente letterario.

Ma il fatto che questa sia un’avventura fantastica non significa che la storia debba perdere in credibilità e verosimiglianza o che sia sufficiente rifarsi a qualche precedente letterario per donarle consistenza. Non basta riprendere nomi e descrizioni delle Città invisibili di Italo Calvino per donare consistenza a un’ambientazione quanto mai evanescente. Il lungo viaggio di Aelis e dei suoi occasionali compagni si snoda in un territorio irreale, dal quale le persone sembrano a volte misteriosamente svanite ma nel quale lei e gli altri non hanno alcun problema a trovare sostentamento. La struttura sociale è assente. È vero che c’è una guerra in corso, ma la quasi totale assenza di persone trasforma ogni luogo in un semplice sfondo piatto dal quale non rimane che passare oltre.

Tolto ogni elemento di contorno la storia si dovrebbe concentrare sui personaggi, i protagonisti assoluti della scena per pagine e pagine. Peccato che Aelis, che al momento dell’inizio del romanzo è giovanissima, spesso sembri un incrocio fra Chuck Norris e la Donna bionica, con una forza prodigiosa superiore a quella di molto uomini e una capacità di guarire da ferite che stroncherebbero persone molto più robuste di lei. L’immagine di lei che blocca una spada con i denti richiede ben più della temporanea sospensione d’incredulità che è propria della narrativa e implica uno sforzo aggiuntivo da parte del lettore per non chiudere definitivamente il libro.

Non che non ci fossero stati elementi un po’ troppo fuori dalle righe anche prima, a partire dal linguaggio improbabile con un avversario definito, nel corso di una lotta che potrebbe rivelarsi mortale, “cattivo”. Cattivo? Dopo aver visto la propria vita distrutta, persone che amava morte ammazzate ed essendo impegnata in un confronto dal quale non sa se ne uscirà vittoriosa, la scelta di termini di Aelis è quanto meno singolare. Come è singolare l’animale con cui decide di fare amicizia nel momento più oscuro del suo lungo cammino: un ragno.

Vanni Santoni
Vanni Santoni
Che i personaggi di un fantasy abbiano un legame speciale con un animale, che sia un famiglio o un semplice compagno d’avventura, è cosa frequente, ma che l’amicizia si instauri con un animale che non porta nulla a livello di trama dà più l’impressione di un voler riempire le pagine usando un cliché in modo insolito che di descrivere una scena necessaria alla storia o alla caratterizzazione del personaggio stesso. Tanto è vero che finito l’intermezzo del ragno, giustamente, non resterà traccia alcuna.

Fra l’uno e l’altro episodio si inserisce una scena in cui Aelis incontrando alcuni marinai mostra una ingenuità notevole, che avrebbe anche potuto essere comprensibile alla luce della sua giovane età se non avesse dimostrato, nel confronto in cima alla torre, una capacità di rapportarsi agli altri molto maggiore. Le scene che destano perplessità sono tante, dalla rassegnazione con cui alcuni mercanti di schiavi accettano di perdere soldi con la loro inazione quando invece potrebbero facilmente intervenire per mutare le cose a un duello presentato come praticamente impossibile e poi risolto in modo ridicolmente facile, dalla facilità con cui Aelis a compagni trovano cibo dove non ce ne dovrebbe essere all’accantonare la propria arma e affrontare a mani nude un avversario più grosso di lei e ben addestrato che sta cercando di ucciderla perché non è sicura che lui sia responsabile di un massacro di cui ha visto da poco le tracce. Quanto ai comprimari, spesso fungono semplicemente da deus ex machina: compaiono quando serve, aiutano la protagonista senza che abbiano un reale motivo per farlo o ricavarne alcun vantaggio e poi spariscono nel nulla, dimenticati completamente nel resto della storia. Non che se ne senta la mancanza visto che più che figure reali sembrano macchiette: il guerriero sconfitto, l’indovina misteriosa e incomprensibile (oltre che inutile), il saggio eremita e così via. Svolto il loro compito escono dalla storia spesso senza lasciare di loro nemmeno il ricordo. Un personaggio per la verità torna in scena parecchio tempo dopo essere temporaneamente scomparso, miracolosamente e misteriosamente sopravvissuto a una ferita che nel nostro mondo sarebbe certamente stata mortale.

Il finale è frettoloso. La storia è divisa in cinque parti, ciascuna delle quali rappresenta una tappa del lungo cammino di Aelis. L’ultima inizia in modo abbastanza lento, con tanto di spiegazione dell’alfabeto runico che sarebbe stata meglio in un eventuale appendice piuttosto che a rallentare la vicenda con tanto di contorno di dialoghi insulsi. La matrice colta dell’autore affiora in questo e altri dettagli, annacquati e sparsi nella storia senza che un preciso disegno narrativo li unisca. Per avere una conclusione forte perciò Santoni si trova costretto ad accelerare rapidamente lo svolgersi degli eventi, facendo compiere alla protagonista e alla sua amica un errore di valutazione enorme che non si risolve in catastrofe solo grazie a un insperato colpo di fortuna.

Lo stile è vario, alterna frasi brevi e dialoghi privi di fronzoli a frasi lunghe tutta una pagina. Dovrebbero essere introspettive, fornire le motivazioni della protagonista o rendere meglio l’atmosfera fantastica in cui si muove, ma l’impressione principale è di disomogeneità.

Ci sono molti modi di interpretare il fantastico. Può essere qualcosa di favoloso, straordinario e immaginativo o che, essendo un prodotto della fantasia, non ha una necessaria rispondenza nella realtà dei fatti, o può essere qualcosa di irreale, cervellotico o bizzarro. Spiace vedere che Santoni abbia temporaneamente lasciato la narrativa realistica e si sia accostato a quella fantastica enfatizzando l’accezione negativa del termine. La fantasy italiana può aver bisogno di crescere, ma non è questa la direzione da prendere.