27 gennaio 1945: l’Armata Rossa varca i cancelli di Auschwitz e scopre l’orrore che vi è stato celato dentro per troppo tempo. Ebrei, zingari, omosessuali, disabili, dissidenti politici, prigionieri di guerra, oltre sei milioni di persone sono scomparse fra il 1940 e il 1945 nei campi di concentramento nazista.

Per ricordare quell’orrore molti paesi del Mondo – fra cui l’Italia – hanno istituito il Giorno della memoria.

Di quei giorni tremendi sono note molte fotografie e un certo numero di testimonianze. Quella di Primo Levi, che è sopravvissuto, quella di Anna Frank, che invece è entrata a far parte del più drammatico dei numeri, e con loro Elie WieselImre Kertész e tanti altri hanno lasciato pagine più o meno note di quello che hanno vissuto e di ciò che hanno sofferto.

Noi oggi vogliamo ricordarli, e ricordare tutti coloro dei quali non conosciamo il nome né la storia, attraverso una vicenda narrata dallo scrittore tedesco Michael Ende che, nel corso della sua vita, aveva avuto modo di conoscere uno dei sopravvissuti.

L’autore di Momo e della Storia infinita nella sua raccolta di saggi Storie infinite cita – senza farne il nome – un artista di marionette. Non sappiamo chi sia, non conosciamo il suo volto né la sua storia al di fuori di questo singolo episodio. Abbiamo scelto di riproporlo ai nostri lettori in rappresentanza della vita, dei sogni e delle sofferenze di tutte le persone travolte da quella terribile macchina di morte che è stata l’Olocausto. Perché, a differenza di quello che volevano credere i nazisti, quelli rinchiusi nei Campi erano esseri umani e non numeri, ciascuno con una propria individualità e ciascuno di loro impegnato, anche in quelle condizioni disumane, a conservare la propria identità di uomo, donna o bambino.

Pubblichiamo il seguente brano per gentile concessione della casa editrice Rubbettino.

Mi viene da pensare a un artista di marionette russo che ho avuto il privilegio di conoscere. Quest’uomo era stato detenuto per molti anni in un campo di concentramento nazista. Grazie a minuscole briciole di pasta di patate aveva modellato a poco a poco delle figurine con le quali metteva in scena delle fiabe per i bambini del campo, approfittando dei momenti in cui non c’erano le guardie nelle vicinanze. E i bambini ridevano, perfino davanti alla rappresentazione di quello che stavano vivendo, perfino di fronte alla morte. Col tempo anche gli adulti iniziarono a frequentarlo, anche per loro faceva le stesse rappresentazioni. Spesso durante le notti prima dell’esecuzione giocava col condannato a mettere in scena il suo stesso destino. Il modo in cui lo faceva restituiva agli uomini il sentimento della loro dignità. Dovevano morire, ma morivano diversi, più sereni, alcuni perfino consolati. Ma a cosa è servito tutto ciò a quegli uomini? Ci si potrebbe chiedere. Io però non me la porrei questa domanda. Per me quell’uomo è stato una persona valorosa e un vero artista.”

Persone, con sogni e speranze. La maggior parte di loro è stata schiacciata da un meccanismo disumano, ma il loro spirito e la loro sofferenza non devono essere dimenticati.

Il brano citato è un estratto della prolusione Perché scriviamo per i bambini? tenuta da Ende a Tokio nel 1986 in occasione del convegno annuale del Comitato Internazionale per la letteratura giovanile pubblicato in M. ENDE, Storie infinite, Rubbettino, 2010, pag. 57.