In principio fu il Caos

Gli uomini vivevano nella Tenebra

Divinità mostruose si pascevano delle loro anime

E decidevano del loro destino secondo il loro capriccio

Poi venne la Legge

Il Sangue, il Ferro e il Fuoco

La Sacra Trinità permise ai Sapienti e ai Costruttori di forgiare un Nuovo Mondo sulle ceneri del Vecchio

La Legge divenne Ordine

E gli uomini divennero Fratelli

Ma il Male non dorme mai

E la Guerra, ben presto, ricominciò.

Estratto dal Primo Tomo delle “Origini di Nemhea”.

PROLOGO

La Grande Caligine.

Così la chiamano i sapienti.

Un’epoca oscura in cui, più di tremila anni fa, il mondo come noi lo conosciamo, ebbe termine.

Qualcuno narra di ciclopici cataclismi, altri di guerre devastanti, in realtà nessuno sa bene cosa accadde.

La barbarie e il caos ebbero il sopravvento.

E l’Impero di Nemhea sorse dalla violenza e dalla confusione, sopravvivendo giorno dopo giorno per garantire un futuro all’umanità.

Sette città unite a difendersi contro le minacce che provengono dal Deserto Proibito, dove un popolo misterioso prepara la propria vendetta, utilizzando i resti di una tecnologia ormai dimenticata.

Sette città che sopravvivono in un equilibrio precario che si regge su una ragnatela di inganni, compromessi e intrighi politici.

In un mondo dove il disordine minaccia ogni giorno di travolgere l’equilibrio costruito sul sangue e sulla sofferenza, l’unica speranza di un destino prosperoso è riposta nella gilda dei reliquianti, volenterosi esploratori che tentano di ricostruire il passato dell’Impero per dare un volto nuovo al mondo intero.

1 – VENTO DI TEMPESTA

In primis fu il fuoco.

Lingue arancioni danzavano nei bracieri di bronzo. Le fiamme si arricciavano, riflettendosi sulle armature solenni della guardia imperiale.

Bagliori roventi sugli elmi cilindrici e gli scudi ad ogiva.

Poi venne il metallo.

Sotto la grande volta della cripta segreta nelle profondità della cittadella fortificata di Nemhea, Samuel scendeva i gradini rozzamente intagliati nella roccia delle fondamenta, diretto verso il suo destino.

Nudo, la pelle crogiolata dal sudore, avanzava tra le due fila di soldati silenti, come statue di metallo cesellato.

I piedi calpestavano le pietre calde, mentre il grande fuoco brillava nell’enorme cratere di ferro.

Fiamme che non si spegnevano mai.

Il cuore stesso di Nemhea.

Il Gran Sacerdote del culto della Trinità lo stava aspettando.

Il volto corrucciato era scavato da una tela di rughe. Sopracciglia cespugliose sormontavano occhi penetranti. Uno spadone dalla lama intarsiata di simboli stava in verticale, tenuto fermo dalle mani callose del religioso. Le figure incise sul metallo brunito si confondevano con quelle che risaltavano sul tessuto dell’abito talare.

Samuel lo raggiunse e il battere di un tamburo si perse nella penombra prodotta dal fuoco sfrigolante.

E infine venne il sangue.

Il Fuoco aveva forgiato il Metallo. Ma era il Sangue ad aver dato all’uomo il coraggio e la forza.

Samuel era fermo. Il calore bruciava la pelle ma lui non osava muoversi. Il Gran Sacerdote era dietro di lui.

Un altro colpo di tamburo risuonò nella cripta.

Fu allora che il rito ebbe termine, appena lo spadone gli incise la carne e il sangue gli risalì in bocca.

E il dolore gli si conficcò nel cervello come un fuso d’acciaio.

 

Da qualche parte nel Deserto Proibito.

La bocca era impastata.

Dolciastro aroma di sangue.

Vomito acre di bile.

Gli occhi faticavano ad aprirsi.

Il ricordo del Rito dell’Acciaio accompagnò il suo risveglio tumultuoso.

Era appeso a testa in giù per una gamba ad una corda polverosa nella stamberga di un gruppo di predoni.

Oscillò col sangue che gli annebbiava la vista. Due nemici, avvolti da brandelli di lercia pelle di dromedario,i volti ricamati da tatuaggi tribali, gli sorrisero con le bocche sdentate. Avevano smesso di torturarlo quando era svenuto e si erano ubriacati con una grappa di ginepro razziata ad un convoglio di Mither che andava a Shanta.

Il loro capo, un sanguinario predone di nome Wanat, voleva un’importante reliquia che Samuel aveva recuperato da una tomba nel Deserto Proibito. Ma lui non aveva ancora parlato.

Sputò un grumo di sangue. Aveva il petto pieno di ferite che gocciolavano.

I predoni lasciarono il fiasco impolverato e impugnarono le sciabole sbeccate. C’era un lavoro da portare a termine.

Una scarica di palle di piombo spappolò la testa di uno, spargendo marmellata di cervello ovunque.

Un guerriero dalla folta capigliatura nera era appena entrato spalancando la porta con un calcio.

Imbracciava un fucile a canna svasata ancora fumante. Lo rimise subito in spalla ed estrasse una delle due pistole a tamburo che teneva nella bandoliera che gli attraversava il petto.

Un colpo solo e anche l’ultimo nemico stramazzò al suolo con i sensi resi troppo lenti dall’alcool.

Utilizzando una mannaia con cui i torturatori mozzavano le dita, Ash liberò il prigioniero con un gesto secco.

La corda si strappò e Samuel piombò al suolo dolorosamente.

- Ce ne hai messo ad arrivare! – bofonchiò il reliquiante, cercando di rialzarsi.

- Stavo finendo il mio sigaro! – Ash lo aiutò sogghignando, quindi ne estrasse uno da una delle mille tasche piene di attrezzi fantasiosi della sua fusciacca, prima di addentarlo.

Era un trappoliere, uno che disinnescava i meccanismi diabolici disseminati in antiche tombe, mausolei e sotterranei. Uno che sapeva come entrare all’inferno e uscirne vivo.

Era anche il miglior amico che Samuel potesse avere in quel momento.

Insieme uscirono dalla baracca di legno.

Ash serrò vorace il sigaro di tabacco di Roqq, il suo preferito.

Samuel imprecò, strizzando gli occhi sotto il sole torrido del deserto.

Le nubi all’orizzonte annunciavano visite sgradite.

Forse un centinaio di predoni.

- Restiamo a preparare una festa? – scherzò Ash.

- Non ci penso proprio – rispose Sam, asciugandosi il sangue dal volto. Poi, colto da un pensiero improvviso, fulminò il compagno. – Ce l’hai ancora?

- Cascasse il mondo – lo tranquillizzò Ash, stendendogli una pistola.

- Non diamo soddisfazioni a quei bastardi – concluse il reliquiante, afferrando l’arma.

Castello Imperiale, Nemhea.

L’Imperatore era stanco.

Rogal Krannigan era stato un guerriero e un padre, un condottiero e un amante.

Aveva combattuto a sud, oltre le colline di Shanta, cinquant’anni prima, per ricacciare nelle profondità del deserto maledetto, i Signori delle Sabbie e la loro progenie di predoni.

Aveva respinto nelle tenebre i morphic di Naggah ed estirpato i culti cannibali che provenivano dalle isole al largo di Zheng.

Aveva sconfitto i pirati del Mar Feroce.

Aveva avuto una moglie da amare e tre figli stupendi.

Il mondo era stato ai suoi piedi, come un cane obbediente.

Ma adesso molte cose erano cambiate. Troppe.

Affacciato dalla finestra di una delle slanciate torri della cittadella, la roccaforte al centro della città di Nemhea, la capitale dell’Impero delle Sette, osservava un gabbiano volteggiare fra i tetti sottostanti. Veniva dal golfo poco lontano, dal Mar Feroce.

Le vie pulsavano di vita.

Il Viadotto delle Ossa e il Promontorio dei Rubini, i quartieri popolari e il Corno di Bronzo, covo per tagliagole, farabutti, prostitute e avventurieri. Vide la colorata zona dei Settemondi, dove genti di tutto l’Impero si incontravano per il mercato e la Piazza dei Supplizi circondata dai quartieri popolari.

Respirò un buon odore di carne cotta e scrutò oltre le nubi.

Apparentemente il cielo era tranquillo, anche se lui sapeva cogliere le nubi di tempesta anche nel blu più limpido.

Rogal era attanagliato da un’angoscia profonda.

Innanzitutto era vecchio.

Poi si sentiva solo.

Solo in un mondo sempre sull’orlo del collasso, prossimo alla fine.

Ne era certo.

Nemhea sarebbe caduta.

E lui non voleva assistere al crollo delle Sette Città, tutto quello che aveva contribuito a consolidare e unire.

Il ciambellano, Nikolaus, lo richiamò ai suoi doveri.

Poteva sembrare un affronto. Nessuno dava ordini all’Imperatore, ma Rogal era un uomo mite, abituato ormai all’autorità rassicurante esercitata dal suo fedele consigliere.

Rientrò nel salone delle udienze, scostandosi dal davanzale di marmo. C’erano molte persone che attendevano un colloquio privato. Dignitari, ambasciatori delle città principali, mercanti, ingegneri.

Nikolaus regolava le visite in ordine di importanza.

Il primo personaggio ad essere accolto nello studio dell’Imperatore fu Kurt Gregson, uno dei più eminenti cerusici dell’omonimo collegio.

Corona di capelli grigi, pizzetto ben curato anch’esso di colorito cinereo. Sembrava molto impaziente nelle sue vesti eleganti di tessuto di Zheng color antracite.

Rogal lanciò un’occhiata distratta alle statue imponenti che lo fiancheggiavano.

Suoi antenati, mitici guerrieri. Sentiva il peso dei loro sguardi di pietra su di sé. E non c’era la sua amata Myrna con lui.

Un corteo di servitori in livrea amaranto, lo seguiva silenzioso, provvedendo ad aiutarlo a sedersi sul trono, pronti a massaggiarlo, a rabboccare la coppa di vino dolce o a stendere un vassoio con fette di melone maturo.

Rogal rifiutò il loro aiuto e li congedò.

Seguendo Nikolaus, entrò nel suo studio.

Il cerusico aveva fretta di esporre il suo problema. Aveva la fronte spaziosa, imperlata di sudore, che si asciugava di continuo con un fazzoletto.

Li circondavano musi di cinghiale, teste d’orso, trofei animali appesi alle pareti, ricordi di passate battute di caccia, quando la vita era solo un affastellarsi di avventure incoscienti e baldorie dopo la battaglia.

Il ciambellano era in piedi, alla destra del trono di legno lavorato di quercia, foderato di raso porpora, su cui sedeva l’Imperatore.

Rogal pensava alle centinaia di sovrani che si erano succeduti prima di lui, alle decisioni difficili prese tra quelle mura.

Ogni singola pietra aveva visto assedi, massacri, tradimenti, guerre, avvelenamenti. Le mura trasudavano stille di sangue.

- Signori – il cerusico lo distolse dalle sue visioni – la situazione è drammatica. –

- Si spieghi meglio – ordinò Nikolaus, sollevando appena il mento in un’espressione altezzosa, gli occhi da falco ad indagarlo, sotto la calotta di tessuto scuro posata sul cranio oblungo.

- Credevamo che l’epidemia fosse sotto controllo ma ci sbagliavamo. – L’uomo tossì nervoso. – C’è un altro focolaio di Febbre Vermiglia. -

L’Imperatore cercò una posizione migliore sul trono. Non la trovò.

- Isolate le zone. In fretta. – rispose per lui il ciambellano.

- Lo abbiamo fatto e la guardia imperiale ci ha aiutato ma non è servito. Una parte del quartiere del Corno di Bronzo è stata sigillata e messa in quarantena. Tuttavia non è possibile escludere che qualche infetto ci sia sfuggito, e che …

- Cosa? – incalzò stizzito Nikolaus.

- Forse abbiamo a che fare con un untore.

- Maledizione. E una cura?

- Ci stiamo lavorando ma con scarsi risultati.

- Voglio essere informato su ogni sviluppo della vicenda. Ogni ora un bollettino.

- Sarà fatto.

Il cerusico si allontanò celere. Sembrava non vedere l’ora di eludere le domande del ciambellano.

Appena fu uscito, Rogal parlò.

- Nemhea è finita ormai.

- Mio Signore, non dovete parlare così. Nemhea è forte. Troveremo una cura per la Febbre Vermiglia. L’epidemia è stata contenuta.

- Nikolaus, ma non vedi che siamo circondati da nemici implacabili?

- L’Impero ha superato crisi ben peggiori.

L’Imperatore scosse il capo.

- Quali notizie da Naggah?

Naggah era una delle sette città dell’Impero.

Arroccata sulle montagne a sud-ovest di Nemhea, era da sempre un avamposto imperiale contro le orde barbariche che si annidavano nei canyons delle Desolazioni Cineree, oltre le catene dei Monti Crudeli.

Messaggi frammentari avevano avvisato che la città era stata conquistata da un ignoto usurpatore che minacciava di entrare in rotta di collisione con l’Impero.

- Il nostro informatore è riuscito ad inviare un ultimo messaggio prima di sparire e smettere le abituali spedizioni.

- Lo hanno catturato.

- Probabile.

- Cosa diceva l’ultimo messaggio?

- E’stato scritto in fretta. L’inchiostro era sbafato. Quell’uomo era braccato. Il suo è stato un tentativo disperato di avvertirci. E’riuscito appena a mandare un corvo …

- Cosa c’è scritto?

La voce di Rogal riacquistò per un istante l’antica fermezza, la stessa di quando aveva abbattuto il campione dei Signori delle Sabbie col suo martello pesante.

Nikolaus non abbassò lo sguardo.

- Siamo riusciti a capire una sola riga.

- Una sola?

- Ma sufficiente.

- Cosa diceva? – Rogal prese la coppa di vino e ripensò alla sua amata Myrna.

- Sappiamo il nome dell’usurpatore, maestà.  È Torg Krannigan, vostro fratello.

Provincia di Zheng.

Colline verdeggianti a perdita d’occhio, sotto un cielo di zaffiro scintillante.

Elcor respirava l’aria fresca, godendosi il panorama seduto sul pianale del carro. Insieme a suo padre Jhalo, al loro fido segretario Snoten, e alla loro guardia del corpo, Karlos, si stavano dirigendo verso una delle città stato più importanti dell’Impero, Zheng.

Elcor era un ragazzo di diciassette anni. Non era mai uscito dalle mura di Nemhea e quel viaggio verso sud lo aveva riempito di emozioni.

Si sentiva al sicuro quando era con suo padre, uno dei mercanti di spezie più facoltosi dell’Impero e si crogiolava al sole, osservando le risaie punteggiate da donne con i piedi a mollo nell’acqua placida.

Incrociarono carri carichi d’erba tagliata e convogli di mercanti di stoffe.

Un vecchio senza denti salutava tutti i passanti, sorridendo e inchinando il capo, aggrappato al suo corto bastone.

Su un colle circondato da pioppi, sorgevano diverse lapidi storte, circondate da variopinti fiori di campo. Un gregge di capre brucava l’erba inerpicandosi fra le tombe. Elcor vide il pastore sbracciarsi per richiamarle. Quello era un cimitero sacro.

- Guarda Elcor!

La voce di suo padre destò la sua attenzione.

La strada principale era molto trafficata. Erano vicini alla città.

Mentre succhiava una prugna secca, Jhalo gli indicò una serie di grandi colonne scolpite che fiancheggiavano la via. Erano coperte di edera rampicante, retaggio di un antico popolo autoctono dagli occhi a mandorla che aveva abitato quelle terre secoli prima.

Elcor le osservava ammirato.

Numerose scimmiette si rincorrevano fra le liane frondose, compiendo acrobazie e litigandosi un piccolo mango giallo. Poi il frutto cadde, schiantandosi su una bancarella di verdure sottostante.

Molti ambulanti stazionavano fra le colonne, stendendo le loro merci su stuoie, tappeti o sul retro dei loro carretti.

Elcor aveva compiuto quel viaggio perché suo padre voleva che imparasse il suo mestiere, trattando le merci nel più grande mercato dell’Impero.

Un giorno lui sarebbe stato il suo erede e doveva conoscere tutti i trucchi di quel mondo. Elcor aveva altre due sorelle, quindi la società mercantile sarebbe finita a lui.

Ma era ancora solo un ragazzo, ingenuo e credulone, poco avvezzo a ordire intrighi, ad evitare i raggiri e a nuotare in quel mare di squali, dove, o si sbrana o si viene sbranati.

Dopo il profumo selvatico delle campagne, l’olezzo nauseante della città li raggiunse.

Zheng la Putrida, Zheng la Fascinosa, si apriva di fronte a lui.

Zaffate contrastanti si mescolavano nella sua mente.

Tanfo di pesce marcio dai canali navigabili ingombri di imbarcazioni, profumo di fiori freschi e carne cotta, aroma di cenere dalle pire rituali dei funerali.

Un mangiafuoco si esibiva a un incrocio, sputando barbe di fiamme sui passanti.

Una vecchia rugosa invitava la gente ad accostarsi alle sue ciotole di carnose olive nere.

Due fanciulle di schiatta nobile, vestite di seta colorata e coi volti velati, camminavano controllate da guardie del corpo di Urron, massicce e brutali, coperte da protezioni di cuoio e armate con tirapugni di ferro.

Zheng sorgeva su un arcipelago di isole alla foce del fiume Og. Erano collegate da una complessa rete di ponti che attraversava i canali navigabili.

Il principe Han Guh era un sovrano capriccioso, capace di grandi gesti di generosità e atti di crudeltà inauditi.

Si diceva che nella stessa giornata, avesse regalato un palazzo ad un orfanella incontrata per strada e avesse fatto tagliare la testa a cinque servitori per aver fatto cadere un acino d’uva destinato a lui.

Ma il mercato era sacro e nemmeno il principe poteva mettere becco nelle trattative e nei commerci di Zheng.

Il carro schiacciò la carcassa putrefatta di un gatto, sprizzando una purulenta poltiglia. Un odore acido di decomposizione aggredì le narici di Elcor che, nonostante fosse abituato al caos di Nemhea, non era pronto ad affrontare la follia di quella città affollata e convulsa.

Il carro seguiva una mandria di bovini diretta al mercato. Ogni tanto sobbalzava sui cumuli di sterco.

Snoten sembrava timoroso ad immergersi in quella marea umana.

Karlos era sospettoso. Si guardava intorno continuamente. Bisognava avere mille occhi fra quei vicoli.

Neanche lui però, sarebbe riuscito ad accorgersi dell’uomo che li seguiva.

Era il membro di un antico popolo di cui si erano perse le tracce, ultimo depositario di letali tecniche di combattimento e mimetizzazione.

Lo chiamavano il “Mangiatore di Uomini”, ma non perché fosse un cannibale.

Perché poteva fagocitare chiunque e assumerne l’aspetto per compiere ciò che faceva meglio.

Sabotare, stuprare, rapire, uccidere.

Il Corno di Bronzo, Nemhea.

Il Corno di Bronzo era il quartiere più malfamato di Nemhea.

Una zona che si estendeva dal fiume della Serpe Rossa lungo il perimetro delle mura a est e inglobava anche gran parte dei caseggiati popolari più sordidi e degradati.

All’imbrunire non era il posto più adatto per una giovane donna.

Vivian si stringeva addosso il mantello, scrutando i vicoli cupi da sotto il suo cappuccio.

I lampionai lì non arrivavano e le uniche luci erano quelle delle lanterne appese fuori dalle taverne.

Una prostituta la scrutava dietro l’androne di una porta, gli occhi gonfi, bistrati malamente, l’aria malinconica di una donna costretta ad una vita di soprusi.

Incrociò un ubriaco che si appoggiava ai muri, vomitando ogni dieci passi.

Urina di topo e piscio nell’aria fredda, canti di balordi risuonavano da qualche parte.

Un tossico con i denti ingialliti dall’oppio nero delle Isole di Smeraldo, emerse da una stradina buia, biascicando qualcosa. Vivian lo evitò lanciando un gemito. L’uomo tentò di ghermirla ma lei si affrettò verso la zona tenuta in quarantena.

Vide le guardie imperiali con le loro picche, all’ingresso di un caseggiato fatiscente.

Subito la squadrarono con aria sospetta, finché lei non si qualificò.

-          Sono un cerusico del collegio. Lasciatemi entrare. – e mostrò loro il lasciapassare rilasciatole da Kurt Gregson, il suo decano.

I due soldati si lanciarono un’occhiata perplessa, poi le fecero cenno di passare.

Vivian pensò a suo fratello Ash. Se fosse stato lì con lei, le avrebbe detto che era un’esperta nel cacciarsi nei guai. E invece chissà dov’era, anche lui intento a ficcarsi in qualche avventura senza respiro.

Salì le scale ripide, piombando in quello che, in effetti, sembrava l’anticamera dell’inferno.

Lo stanzone era stato trasformato in una sorta di infermeria per moribondi.

Tanfo di feci, sudore e morte. L’odore dolciastro del sangue che essudava dai bubboni di quei poveretti, si mescolava in maniera nauseabonda all’incenso sparso da uno degli inservienti che assistevano i malati.

Vivian aveva indossato la sua mascherina di garza, avvicinandosi ai corpi per studiare l’effetto della Febbre Vermiglia. Alla luce calda delle torce, che stillavano gocce dense di catrame, controllò le macchie sulla pelle.

Era la seconda fase del morbo.

Dolori articolari, cefalea, spossatezza, poi comparivano le macchie, sulle braccia e sul petto, emorragie orali e nasali, quindi fuoriuscivano i bubboni. Arrivava la febbre alta, diarrea, vomito scuro, occhi rossi dilatati con aree emorragiche sulle sclere, il sintomo di una necrosi progressiva degli organi interni.

La malattia veniva trasmessa dai liquidi corporei e questo aveva limitato la sua diffusione. Se la febbre si fosse estesa per via aerea, Vivian non osava immaginare cosa sarebbe potuto accadere.

Aveva passato la giornata a studiare nella biblioteca del collegio tutti i volumi sulle malattie infettive. Quindi sapeva anche che una cura non esisteva e che la morte sopraggiungeva nella maggioranza dei casi.

- Lei è il cerusico di turno?

Vivian sobbalzò, voltandosi.

L’uomo apparso dietro di lei era molto alto, con corti capelli neri e un’aria arcigna. Indossava gli abiti talari di un sacerdote della Trinità ma in lui c’era qualcosa di pericoloso e inquietante.

E anche affascinante.

Vivian fronteggiò l’imponente chierico.

- Con tutto il rispetto, cosa ci fa un assertore in questo luogo di morte? C’è il rischio di essere infettati, lo sa?

- Un assertore non teme la morte. Teme solo l’ira del Sangue.

- Pregare, purtroppo, non aiuterà questi poveretti.

Vivian non si era accorta della gaffe, di aver sminuito il supporto spirituale della preghiera. Ma l’assertore apprezzò la sua franchezza.

Tra i sacerdoti che veneravano la Trinità ovvero i tre dei del Sangue, del Fuoco e dell’Acciaio, gli assertori erano tra i più duri e fanatici.

Mastini dell’investigazione il cui unico scopo era sradicare ogni culto eretico.

Horian era uno dei più capaci ma allo stesso tempo uno dei più invisi nel suo ordine.

Aveva idee rivoluzionarie e dimostrava una certa tolleranza verso alcuni peccati che invece avrebbero necessitato di maggior rigore.

Fra gli assertori esistevano due correnti di pensiero.

Gli Intransigenti, che intendevano distruggere alla radice qualsiasi culto estraneo alla Trinità e combattevano, spesso in maniera occulta, ogni religione antica presente in modo più o meno velato, nelle altre città dell’Impero.

Poi c’erano i Manipolatori, a cui apparteneva Horian, che studiavano gli altri culti, li analizzavano per comprenderli ed eliminarli solo nel caso fossero pericolosi. Perciò erano considerati troppo deboli. Usavano troppo il cervello e poco i muscoli.

Horian li odiava. Gli Intransigenti erano degli ottusi, stupidi, caproni.

Il loro, invece, era un compito delicato che andava svolto da menti eccelse. E in quel momento si stava chiedendo se Vivian fosse una di queste.

- Secondo lei l’infezione potrebbe essere di natura dolosa?

- Intende se c’è stato l’intervento di un untore? Questo nessuno può dirlo.

Horian restò pensieroso. Gli occhi scuri che correvano sui corpi agonizzanti.

- Cosa sta succedendo? – chiese Vivian, curiosa.

L’assertore la prese da parte, tirandola per un braccio.

Vivian arrossì per quel tocco inatteso.

- Voglio fidarmi di lei. – I bagliori delle torce tratteggiavano il suo volto severo di chiaroscuri tenebrosi.

- Il mio assistente, Crampo – e fece un cenno a uno storpio in fondo allo stanzone, di cui Vivian neanche si era accorta – ha compiuto delle indagini molto approfondite. Dietro a tutto questo, c’è una donna. Lei è a capo di una cellula terroristica.

- Cellula terroristica? – Vivian sgranò i suoi splendidi occhi verdi.

- La Corona Purpurea, un culto pagano che adora Unash, un’oscura divinità delle malattie, più vecchia di Nemhea stessa. Questa donna è convinta di riportare il suo credo agli antichi fasti e per far ciò è disposta a massacrare centinaia di persone spargendo la Febbre Vermiglia.

- Dobbiamo avvertire le guardie imperiali.

- Assolutamente no! – Crampo si era avvicinato senza far rumore. Vivian vide che era gobbo e zoppo, ma possedeva insospettabili capacità e una di queste era di muoversi di soppiatto.

- La Corona Purpurea potrebbe avere proseliti ovunque. Meno persone sanno, meglio è.

- E allora cosa avete intenzione di fare? Siamo soli! – Vivian era preoccupata.

C’era una luce strana negli occhi di Horian. Vi brillava la sfida, il gusto per l’indagine, ma anche una sorta di brivido intellettuale, l’idea di riuscire a battere in astuzia un nemico forte e subdolo. Lui e lo storpio affascinavano con la loro determinazione ma trasmettevano anche un’inquietudine sottile.

Vivian sapeva che trattare con un assertore poteva essere pericoloso, ma se Horian diceva il vero, forse loro erano l’unica speranza di fermare tutta quella follia.

Un malato rantolò proprio in quel momento, mentre rifletteva su ciò che aveva scoperto. Spirò in un lago di sangue.

Il catrame che scolava dalle torce sfrigolava nei liquami necrotici.

Una domanda rimbalzava nella mente della donna.

Non era il compito di un cerusico, quello di fare tutto ciò che era in suo potere per salvare gli innocenti?

Oasi di Kholumna.

- Gazad natar-gu guddah! – ordinò il Signore di Ootam ai suoi predoni.

Il trono mobile si fermò e gli schiavi ripresero fiato sotto il sole torrido del deserto.

Egli affondò la mano grassoccia in una ciotola di ferro e portò alla bocca vorace un pugno di lumache in salamoia.

Gocce collose di salsa piccante con maggiorana, cannella e peperoncino nero, colarono sul petto flaccido, fra i capezzoli gonfi, borchiati con ganci di bronzo a cui erano appesi piccoli cilindri d’oro con incise preghiere alle oscene divinità delle sabbie.

Raag Zuroot aveva visitato il mercato di schiavi di Zunat ma non era rimasto soddisfatto della carne che aveva visionato.

Ora un suo luogotenente, Wanat, lo aveva avvertito che era sul punto di catturare due avventurieri del nord, che avevano avuto l’ardire di profanare una sacra tomba.

Raag aveva deciso perciò, di attendere sue notizie, insieme alla truppa che lo accompagnava, dai colli sassosi che sovrastavano il paesotto di Kholumna, dove un migliaio di abitanti viveva in un crogiuolo di casupole assemblate accanto a cinque grandi pietre calcaree, bianche come ossa calcinate dal sole.

Samuel serrava i denti.

Le ferite bruciavano.

Ash era impegnato a pulirgliele con una pezza imbevuta di aceto e polvere di cardamomo.

- Smetti di frignare!

- Parli bene tu, brucia come il fuoco! – mormorò Sam con le lacrime agli occhi.

- Prenditela con Vivian, lei dice che è l’ideale per non far infettare i tagli.

- Dovrei ringraziarla allora.

- Se sopravvivi. – borbottò Ash finendo di fasciarlo.

- Dobbiamo andarcene prima possibile – cambiò discorso Samuel, controllando le medicazioni sui muscoli tesi.

- Stai scherzando? Io voglio una tinozza d’acqua calda e una ragazza che mi lavi la schiena – ci pensò un attimo. – E una bella ragazza. – Ci pensò ancora. – Con due tette enormi!

- I predoni ci sono alle calcagna. Vuoi diventare uno schiavo o peggio? – mormorò Sam alzandosi in piedi.

- Sono due mesi che bevo latte di cammello. – Ash alzò la brocca sul tavolo. – E che mangio robaccia – sollevò una focaccia fritta nel burro di capra e la gettò contro il muro.

Sam non diede peso a quello sfogo. Conosceva bene l’amico. Avrebbe capito le priorità. Afferrò la custodia metallica che teneva con sé gelosamente.

- Stiamo rischiando troppo e non possiamo permettercelo – mise a tracolla l’astuccio e sospirò.

- È così importante? – domandò rassegnato Ash, facendo riferimento al contenuto della custodia.

- Più importante della mia vita e della tua messe assieme.

- Il vecchio Martjn andrà in brodo di giuggiole quando dovrà tradurlo.

- Vedo già quegli occhietti brillare per l’emozione.

- Se sarà ancora vivo quando torneremo. Quanti anni ha, cento, duecento?

Sam sorrise alla battuta dell’amico.

- Anche se fosse morto, tornerebbe in vita, pur di dargli un’occhiata.

- Speriamo che ne valga veramente la pena. – ribatté Ash afferrando la sua giubba e la saccoccia con i suoi attrezzi.

I trappolieri erano individui un po’ bislacchi. Disinnescare antichi marchingegni di morte non era un’attività adatta ai sani di mente. Venivano considerati un po’ toccati, e molti lo erano. Vivevano all’avventura, non avevano famiglia e morivano giovani.

Non avevano scuole, collegi o gilde.

Chi si aggregava a uno di loro doveva essere veramente appassionato o molto disperato.

I trappolieri potevano anche lavorare durante gli assedi o nella costruzione di fortificazioni. Più spesso però, affiancavano qualche reliquiante come Sam in imprese degne di loro.

Lui e Ash si conoscevano da quando erano ragazzini e giocavano lungo le sponde del fiume della Serpe Rossa a Nemhea.

Sam era entrato nella Guardia Imperiale, aveva superato il Rito dell’Acciaio, ma quello non era mai stato il suo mondo e i suoi comportamenti ribelli lo avevano fatto cacciare con disonore.

Una delle sue passioni era sempre stata la storia antica.

Martjn, uno dei più famosi e rispettati bibliomani dell’Impero, lo aveva preso come allievo nella sua torre-biblioteca sul Promontorio dei Rubini. In cambio lui recuperava per lui i reperti più svariati e, in particolar modo, libri.

Il vecchio gli aveva insegnato ad amare tutto ciò che proveniva dal passato.

Il passato è la chiave del presente. Governare il presente è dominare il futuro. Questo gli ripeteva Martjn. E i libri erano la chiave per poter interpretare il tempo. Per ottenere il potere.

Sam conosceva abbastanza bene la parte settentrionale del Deserto Proibito e, seguendo le indicazioni del bibliomane, era penetrato in una tomba sepolta fra le sabbie. Insieme ad Ash erano giunti in un antico santuario che conservava i frammenti di un testo rivoluzionario, in grado di cambiare il destino di Nemhea e dell’intero Impero.

Lo aveva celato nella sua custodia protettiva che avrebbe mantenuto la carta a una temperatura e umidità costanti, perché Martjn potesse tradurre attentamente le scritte consunte dal tempo.

Ora dovevano solo tornare a casa.

Wanat non amava aspettare.

Wanat era sempre andato a prendere ciò che voleva.

Wanat castigava chiunque pensasse di poterlo fregare.

Soprattutto, Wanat odiava i sotterfugi.

Camminava lungo la polverosa via principale che tagliava in due Kholumna, una spada di metallo nero a punta quadra sulla spalla poderosa. La stessa che utilizzava per amputare gli arti degli schiavi insolenti o per mozzare il capo ai suoi uomini più ribelli.

C’era sangue incrostato e residui di gangli cerebrali sul filo seghettato della lama.

Wanat era un colosso bronzeo di muscoli sfregiati da un’ infinita serie di combattimenti nelle fosse di Zandhia da cui era sempre uscito vittorioso.

Aveva la vita e gli avambracci protetti da spessi giri di catene che scricchiolavano ad ogni suo passo.

Gli occhi infossati nel cranio glabro e bulboso, raccontavano un passato di dolori inflitti e subiti. Una vita strappata al deserto con violenza e crudeltà.

Le iene stesse lo temevano, come qualsiasi viandante saggio.

Wanat era il simbolo della legge che vigeva in quei luoghi. Lui e i suoi sciacalli delle sabbie erano un incubo viaggiante.

Camminavano insieme a lui per la città, leccandosi le labbra arse dal sole.

Lingue avide, mani callose strette alle armi, sguardi rapaci dietro gli elmi abbozzati, trafugati a guerrieri trucidati a bruciapelo.

Venivano a Kholumna con un unico scopo.

Catturare la feccia che aveva violato il loro territorio, recuperare ciò che aveva rubato e spedirla nell’inferno più brutale che potessero immaginare.

Wanat avvistò alcuni uomini del paese scendere in strada per fronteggiarli.

Forse non apprezzavano che un predone venisse a spadroneggiare sulla loro terra.

- Tu e la tua masnada – iniziò a recitare uno di questi, un minatore fiero, con le mani spaccate dei giorni passati con la mazza a frantumare rocce. – È il caso che ve ne andiate.

Erano uomini rudi, le barbe incrostate di sale, la pelle brunita dagli atroci raggi solari.

Wanat ringhiò sommesso.

Dalla spalla, la lama scivolò sulla mano. Un gesto minaccioso.

- Scoperò le vostre donne, darò fuoco a queste stamberghe e venderò i vostri figli agli schiavisti di Zandhia – quindi puntò la spada contro di loro. – Tornate a casa. Adesso.

Gli scagnozzi sghignazzavano.

Quelle parole, quella voce dura che sapeva di pietre antiche e vento maligno, ebbero il potere di farli indietreggiare.

Il loro coraggio vacillò, evitando uno spargimento di sangue.

Wanat fece cenno ai suoi di salire nella camera affittata dai due avventurieri.

Non fecero in tempo.

Un rombo improvviso congelò i loro movimenti.

Polvere sabbiosa offuscava l’orizzonte.

I cancelli che trattenevano il bestiame erano stati spalancati. Decine e decine di bovini impauriti sbucarono in strada, minacciando di travolgerli. Gli uomini fuggirono. Wanat e i suoi furono costretti a rifugiarsi nella taverna.

Un diversivo, un fottuto diversivo.

Si credeva furbo quel reliquiante. Ma Wanat aveva fatto sputare sangue a buffoni del nord molto più furbi di lui.

Ash spronava il cammello a galoppare ma l’animale si ostinava in un trotto tanto ridicolo quanto fastidioso.

- Che bella idea! Cammelli!

- Muoviti! – gli urlava Sam che era partito al galoppo fuori da Kholumna, lungo una ripida strada sassosa che scendeva verso un bassopiano.

Erano stati costretti ad abbandonare i cavalli per poter creare il diversivo che aveva bloccato i predoni. Si erano arrangiati e avevano rubato due cammelli, puntando verso nord.

Un piano che Ash aveva maledetto già più di una volta, nonostante gli avesse permesso di uscire dal paese incolume.

- E tu vorresti arrivare all’Artiglio del Drago con questi cammelli? – borbottò Ash che, nel frattempo, aveva recuperato terreno.

- Perché? Si sta comodi!

Ash stava per rispondergli a tono, quando un colpo d’archibugio risuonò alle sue spalle.

Piombo a grana grossa passò accanto al suo capo. Sfrangiò i capelli e gli graffiò la guancia.

Un centimetro più in là e gli avrebbe anche spappolato il cervello.

Ash imprecò.

Non erano soli. Quel bastardo di Wanat aveva previsto la loro fuga.

Sciacalli indiavolati, con abiti sbrindellati e lingue al vento, si erano lanciati all’inseguimento sui loro cavalli. Stringevano schioppi e archibugi provenienti dalle forge del deserto. Rozzi e imprecisi, ma brutali ed efficaci.

Sam vide Ash sorpassarlo, frustando il cammello come un ossesso.

I cavalli erano più veloci, li avrebbero raggiunti rapidamente.

Se le armi da fuoco non li avessero falciati prima.

Sam alzò gli occhi sul pendio che separava la strada dalla sommità del colle su cui sorgeva Kholumna.

Alcune rocce rotolavano sulla strada.

Scogli sempre più grandi si schiantavano davanti agli zoccoli, costringendolo a zigzagare.

Gli abitanti di Kholumna li volevano morti.

La frana di pietrisco travolse i predoni.

Ash e Sam urlarono.

Castello Imperiale, Nemhea.

La lama vorticò in aria.

Janosh sfilò di lato, quasi carezzando il metallo che lo circondava.

La sua era una danza con la morte che lo esaltava.

Contrattaccò con rapidità e violenza, costringendo il suo avversario a indietreggiare, a sbilanciarsi, a perdere la presa sulla sua spada, che volteggiò lanciando sciabolate di riflessi, prima di piantarsi nella terra battuta del cortile degli addestramenti.

Janosh Krannigan allungò la punta d’acciaio verso la gola dell’avversario, una semplice guardia che si era prestata a fargli da compagno per allenarsi.

Il ferro gli punse la pelle.

Sudore freddo sulla fronte. Non per la fatica.

Era paura.

Janosh rideva sotto i lunghi capelli biondi e il volto angelico si deformava in una smorfia demoniaca.

Non era il sorriso di chi ha dimostrato la propria superiorità ma quello di chi pregusta la fine del nemico.

Lui era il secondogenito dell’Imperatore. Aveva ripreso le fattezze gradevoli della madre. L’indole malevola, nervosa, era invece quella dei suoi nonni, crudeli dominatori, che regolavano i conti versando sangue sul campo di battaglia.

Suo padre, Rogal, era un uomo che si era sempre mosso con saggezza. Era stato risoluto, mostrando i muscoli solo quando ne aveva avuto motivo.

Per questo Janosh lo odiava.

Per il suo desiderio di pace.

Perché Nemhea doveva dimostrare la sua forza e piegare gli schifosi barbari del sud alla gloria della Trinità.

Fosse stato lui l’Imperatore avrebbe subito radunato un esercito, indetto una crociata e fatto sparire quelle maledette teste di stracci che li sfidavano.

Da quando poi sua madre, Myrna, era morta, Janosh si era chiuso in se stesso. Solo con lei infatti, si confidava e trovava conforto dalla rabbia che lo divorava. Si sentiva impotente, inutile, e sfogava la sua furia in mille azioni istintive.

Da una balconata interna che dava su quel piccolo cortile della fortezza imperiale di Nemhea, due figure osservavano il termine del duello.

Nikolaus, il ciambellano, era affiancato da un giovane vestito con una lunga tunica azzurra bordata di ricami dorati, che slanciavano un po’ il fisico tozzo, il volto ampio e dall’aria bonaria. Ricordava molto suo padre, Rogal, visto che si chiamava Reinhard Krannigan ed era il suo primogenito, l’erede designato.

- Janosh andrebbe spedito sui monti di Urron, insieme ai lupi – disse il nobile accennando un sorriso.

- Forse imparerebbe un po’ di umiltà, vero? – convenne il ciambellano.

- È quello che dice mio padre.

- È vero anche che Naggah è in rivolta.

- Si, ho saputo. Quindi, magari, sarebbe meglio avere a Nemhea un soldato valido come Janosh, visto anche il suo grande ascendente sull’esercito.

- Con tutto il rispetto, vostro fratello potrebbe essere un elemento destabilizzante.

- Lo so, ma è mio fratello. – Poi si voltò verso il ciambellano e gli sorrise con aria ingenua. -Capisco perché l’Imperatore ti vuole sempre al suo fianco. Sei uno stratega.

- E tu un idiota – pensò Nikolaus, fingendo di accettare il complimento con signorile modestia. – Dovresti dar retta a tuo padre e spedire Janosh fra le nevi di Urron. Magari qualche orso potrebbe squartare quel giovane stolto e incontrollabile.

Quaddy, il giovane paggio di Reinhard, giunse sul balcone con un lieve inchino, portando un vassoio con due calici di pregiato liquore di marasche e una ciotola di praline al cioccolato e cannella di cui Reinhard era ghiotto.

Non era l’unica cosa di cui era avido. Nikolaus lo sapeva bene, così come conosceva altri mille segreti della corte di Nemhea.

Vide come Quaddy e il nobile si osservavano. La cosa era fin troppo palese.

E prima o poi sarebbe andata a suo favore.

Una goccia di sangue lampeggiò sulla lama.

La guardia era impietrita, impotente di fronte a Janosh. Non nutriva speranze di sopravvivere. Solo il capriccio del giovane nobile poteva salvarlo.

O un aiuto inaspettato.

- Sei un vigliacco! Perché non te la prendi con me?

La voce femminile aveva riecheggiato nel cortile, attirando l’attenzione di Janosh, che si era voltato roteando la lama verso la nuova avversaria.

- Oh, dolce sorellina, hai voglia di giocare?

Corinna Krannigan stringeva la spada con aria fiera. Quel coglione di suo fratello meritava una lezione.

Fece oscillare l’arma tra le mani e si sistemò in posizione d’attacco, come gli aveva insegnato il suo maestro Falco Los.

Ma era solo una ragazzina che non sapeva nulla della vita e della morte.

Pretendeva di difendere qualcuno ma non sapeva difendere se stessa. Era irruenta, cocciuta e orgogliosa. Il suo corpo aveva sviluppato presto, attirando l’attenzione di chi la circondava, ma a lei non importava la vita di corte e sognava la gloria sul campo di battaglia.

Perciò non esitò a prendere posizione contro quell’arrogante di Janosh, anche se era per salvare un uomo qualsiasi.

- Facciamo così – propose Janosh, con la sua solita aria pericolosa in cui si mescolavano in parti uguali, il fascino innato dei suoi occhi crudeli e l’ipnotico scintillio dei suoi denti affilati. – Se vinci tu, lui è salvo – e indicò il suo avversario che era rimasto contro la parete, terrorizzato. – Se invece perdi, lo ammazzo!

Corinna deglutì.

Si era ficcata in un gioco più grande di lei. Ma ora era tardi per tirarsi indietro.

Allora preferì prendere di petto la situazione e si fece avanti.

Janosh restò ad attenderla. La sua figura snella sembrava fuori concentrazione. In realtà tutto in lui fremeva per la battaglia.

Quando la spada di Corinna vibrò in aria, i capelli biondi del nobile si mossero appena. Un gesto fulmineo e il metallo cozzò contro il metallo.

Lei non si attendeva una risposta così violenta e repentina. Indietreggiò smarrita, il ferro che quasi le rimbalzava dalle mani. Eppure non si perse d’animo. Neppure quando Janosh le rise in faccia.

Attaccò di nuovo e di nuovo fu respinta. S’infuriò. Ripartì alla carica lanciando un grido di battaglia. Il fratello la evitò facilmente e la colpì con un calcio nella schiena che la mandò a ruzzolare sulla terra battuta.

Corinna tornò in piedi con la giubba di cuoio sporca e la spada che ora le tremava in mano.  Sentiva le lacrime salirle agli occhi ma lei le ricacciò in gola.

- Ti è stata affidata la vita di un uomo. Tienilo bene a mente. Quando sarai in battaglia avrai centinaia di vite sotto il tuo comando, vite che dipenderanno da te.

Corinna tentò di fronteggiarlo ma si sentiva debole, inutile. Le lacrime ormai, sgorgavano libere. La battaglia era persa. Janosh aveva ragione. In guerra occorreva avere carattere. Che ne sarebbe stato dei suoi uomini se avesse pianto, se si fosse dimostrata debole?

Mollò la sua lama e scappò.

Janosh la lasciò correre. Si diresse verso la guardia che aveva assistito allo scontro senza intervenire.

- Pietà! – chiese lui, gettandosi in ginocchio.

Janosh lo osservò come se volesse compatirlo. Poi la sua lama balenò a squarciargli la gola.

- Ti aveva chiesto pietà! – gli urlò Reinhard dal balcone.

- E non è quella che ha avuto? – rispose Janosh, pulendo la lama sulle vesti del morto.

Reinhard era rimasto ad osservarlo uccidere un uomo indifeso. Avrebbe voluto fermarlo ma non aveva mosso un muscolo.

In fondo era pur sempre suo fratello.

La vergogna e la disperazione per essere stata umiliata in quel modo, l’avevano ferita più di quanto avesse potuto immaginare.

Corinna correva per i corridoi di pietra, senza una meta.

Il suo sogno di diventare una guerriera era davvero così sciocco?

L’urlo dell’uomo che veniva ucciso da suo fratello, per colpa sua, le risuonò nel cervello, gelandole il sangue.

Zheng.

Odore penetrante di canfora e aceto.

Nessuno entrava mai nel piccolo antro sotterraneo che si apriva sotto un caseggiato di legno schiacciato fra botteghe e abitazioni nell’isoletta di Khon-Zu, uno dei quartieri della città.

Ed era un bene.

Perché se fosse accaduto, l’eventuale profanatore sarebbe stato accolto da una visione da incubo.

Stanghe alle pareti di sassi che stillavano lacrime di salnitro. Su di esse, facce strappate, pelli stese ad asciugare, informi fattezze di vittime ignote.

L’uomo conosciuto come il Mangiatore di Uomini passava molto tempo là sotto, completamente nudo, in ginocchio, di fronte ad un altare di pietra coperto di ceri, immerso nella preghiera dei suoi dei.

Divinità di vento e di acqua, generatrici di tifoni e gorghi marini. Entità d’una forza ancestrale e inarrestabile.

I tatuaggi sulla schiena dell’uomo contribuivano a rievocare il loro ricordo.

Dragoni serpentiformi che si contorcevano gli uni sugli altri in un’orgia di scaglie, fauci, corna e fiamme demoniache. La pelle sembrava vivere ad ogni guizzo dei muscoli asciutti e allenati.

Lui poteva indossare mille maschere, trasformare se stesso in mille persone diverse per compiere una missione impossibile.

Il suo signore necessitava di un nuovo corpo in cui trasmigrare la sua anima.

E Kanno, il Mangiatore di Uomini, aveva già trovato la sua preda.

Le anatre starnazzavano nelle ceste di vimini.

Si univano al coro di alcune galline appese a una stanga, in attesa che un vecchio con uno straccio arrotolato sulla testa, le sgozzasse con un rapido colpo di coltello.

Il mercato delle Millespezie di Zheng era il più grande di tutto l’Impero. Lì si vendeva qualsiasi cosa.

Dal bestiame più svariato, alle polveri medicamentose delle isole del Mar Feroce; dalle spezie di Shanta, alle pelli pregiate di Urron; ebano, avorio e gioielli di Roqq, perfino strani marchingegni di Mither.

Una donna vestita di arancio, si sbracciava offrendo mazzi di trote appena pescate.

Carretti carichi di derrate, sacchi di riso, rotoli di stoffa, verdure fresche, concimi, attrezzi agricoli, sfilavano per le calli, fra le case intonacate di bianco e i canali puzzolenti, mentre molti mercanti che non trovavano spazio in strada, se ne stavano sui loro barconi a fumare lunghe pipe laccate e a contrattare coi passanti.

Elcor camminava stordito da quell’orgia di suoni, colori e profumi.

Karlos gli era dietro, ben attento a controllare che non finisse in acqua intanto che guardava in giro o che qualche borseggiatore esperto approfittasse della calca per derubarli.

Jhalo, affiancato dal fido Snoten, era impegnato ad indicare a suo figlio il fulcro del mercato, la “Piazza Galleggiante”, un grande bacino fluviale occupato da grandi chiatte legate tra loro da ponti volanti che scricchiolavano e ondeggiavano.

Stormi di gabbiani volteggiavano sui tendoni colorati, fra le casse scintillanti di pesci argentati, mentre su distese di braci ardenti venivano arrostite gustose anguille infilzate su lunghi spiedi e una cremosa zuppa di molluschi bolliva in caldai di rame.

Il gruppetto era diretto nella bottega galleggiante di un vecchio erborista.

Elcor fissava le acque spumose, luride, in cui sciaguattavano i grandi barconi, le chiatte dalle chiglie scrostate, avvolte dai fumi del cibo cotto e dell’incenso offerto al Drago Azzurro, un antico culto che sopravviveva a quello imperiale della Trinità.

Le passerelle sembravano instabili ma i mercanti le attraversavano tranquillamente, facendole dondolare senza badarci.

Jhalo e Snoten si diressero verso un’imbarcazione scura, caratterizzata da una tenda fucsia, circolare, che sorgeva sul ponte incrostato di escrementi di uccelli.

Un custode muscoloso, col cranio piagato dal sole, lunghi baffi spioventi e una scimitarra legata in vita, fece loro cenno di accomodarsi all’interno. Tutti  e quattro si fecero largo oltre la spessa porta di tessuto pesante.

Furono accolti dalla fioca luce di una lanterna. Zaffate speziate aggredirono le loro narici. Noce moscata e fieno. In sottofondo un lieve ma fastidioso sentore d’urina.

Un vecchio dagli occhi a mandorla se ne stava a gambe incrociate su una stuoia consunta. Sembrava avesse un’età indefinibile.

Visto da vicino, Elcor notò i ricami raffinati sulle vesti di seta e le macchie scure che picchiettavano la pelle diafana delle mani ossute, dalle unghie femminee, ben curate.

- Fate come me – li avvisò Jhalo, eseguendo una serie di inchini, le fasi di un rituale di comportamento ben preciso.

Si sedettero tutti e quattro sulla stuoia e il vecchio offrì loro un profumato tè nero servito in ciotole di porcellana con raffigurazioni floreali di smalto blu.

Jhalo parlava la lingua di Zheng e con essa si relazionava all’erborista per concludere i suoi affari.

Il vecchio ascoltava assorto, annuendo di tanto in tanto. Poi un servitore gli portò un vassoio coperto da un telo. Lui lo posò a terra e rivelò tre ampolle piene di erbe sminuzzate.

Jhalo annusò e assaggiò le polveri, parlando fitto con l’erborista, mentre Snoten prendeva appunti per redigere il contratto d’acquisto su un rotolo di pergamena immergendo il suo pennino in una piccola boccetta d’inchiostro che teneva agganciata al polso.

Karlos se ne stava immobile a braccia conserte, silenzioso e vigile.

La contrattazione si concluse con una serie di inchini. Jhalo uscì dalla tenda molto soddisfatto. Si era appena assicurato una partita preziosa di origano giallo, stecche di cannella e semi di coriandolo, spezie che a Nemhea avrebbero fruttato una fortuna.

Elcor era un po’ avvilito. Lui non conosceva la lingua di Zheng, non sarebbe mai riuscito a portare a termine una simile discussione.

Il padre lo rassicurò. Anche lui aveva cominciato così, seguendo suo nonno. Era solo questione di tempo e di esperienza. Diede una pacca sulla spalla del figlio e sorrise.

Quella sera avrebbero festeggiato.

Karlos li seguiva continuando a guardarsi intorno. Non riusciva a togliersi di dosso la spiacevole sensazione di essere seguito.

Le lanterne di carta di riso illuminavano gli angoli delle vie, facendo brillare ondeggianti barbagli di luce sulle acque torbide dei canali.

Nel quartiere delle Nuvole Sognanti, il puzzo di fogna che ristagnava nell’aria si mescolava ai profumi esotici delle puttane, a quello pungente degli intingoli in cui macerava la carne, a quello del fumo che esalava dalle bettole.

Le facciate delle case da gioco e dei bordelli erano dipinte di colori vivaci, rosso, azzurro, giallo, per distinguersi facilmente e invitare i clienti.

C’erano donne che se ne stavano alle finestre a fumare pigramente sottili sigarette, con le tette generose bene in mostra.

Elcor le ammirava col naso in aria e più volte Karlos dovette strattonarlo per impedire che finisse su un cumulo di feci di vacca.

Jhalo lo stava portando nel suo bordello preferito, quello di Hyun-Na. Voleva che suo figlio perdesse la verginità in quel giorno speciale.

Un avvinazzato con i denti anneriti dall’oppio nero, rischiò di travolgerli, quindi si infilarono nell’edificio che ospitava il bordello.

Snoten era rimasto nella sua camera a stilare il contratto a lume di candela.

Meglio, pensava Karlos. Un idiota in meno da tenere d’occhio.

Perché quella spiacevole sensazione di essere seguito non l’aveva abbandonato.

E aveva ragione Karlos. Qualcuno era già nel bordello.

Solo che lui non sapeva da dove sarebbe giunto l’attacco.

Arene Clandestine, Nemhea.

Il sapore del sangue era come una droga.

Quasi quanto l’urlo della folla che lo incitava a rialzarsi. Almeno quelli che avevano scommesso su di lui.

Tutti gli altri si limitavano a sputargli addosso.

Lothar recuperò una parvenza di equilibrio sulle pietre intrise di sangue fresco a formare uno strato viscido sul pavimento incrostato di sangue coagulato, saliva e sudore.

Il colosso irsuto mugugnò qualcosa, massaggiandosi il pugno spellato. Era pronto a riprendere l’assalto. Ma Lothar non ci stava a subire ancora.

Era un figlio di Urron, un guerriero delle nevi dei Monti di Diamante.

E l’erede della corona del Grande Orso. Ora, però, non era più nessuno.

Era solo.

Ad eccezione del suo vecchio servitore, Krudd, che l’aveva seguito fin lì.

Schivò il pugno che sembrava più un maglio di carne e ossa e il suo avversario si sbilanciò. Lui ne approfittò, accentuando la corsa del nemico verso gli spalti. Lo prese per il capo facendolo cozzare sulla roccia e spaccandogli il naso.

Lo afferrò per la mascella.

Rapido movimento del collo e la spina dorsale si avvitò su se stessa.

Fine dell’incontro.

Lothar alzò le braccia muscolose, lucide di striature sanguigne, e accolse le grida di gioia e gli insulti. Poi la grata che lo chiudeva nell’arena si aprì e lui poté uscire in un buio e gelido corridoio che lo condusse in una cella illuminata da bracieri, una sorta di spogliatoio per gladiatori.

Tanfo di vomito, sudore, sofferenza.

Krudd lo aveva raggiunto lì, col volto pallido segnato dalla preoccupazione.

Lothar si stava togliendo il sangue dal volto barbuto con uno straccio lurido.

- Ti hanno pagato? – disse, riferendosi ai proventi delle scommesse.

- Si – rispose lui alzando un borsello pieno di teste d’oro. – Ma non si può andare avanti così! Ti farai ammazzare!

- Non dirlo! Non accadrà!

Rabbia e tristezza si mescolavano nei suoi occhi chiari.

- Possiamo trovare un altro modo per sopravvivere.

- Potremmo cosa? Tu sei troppo vecchio per lavorare. E io so fare solo questo. Combattere.

Lothar aveva un fisico possente, allenato dalle lunghe camminate sui monti più desolati di Urron.

Ora era lì, a Nemhea, in esilio, in incognito, con una colpa pesante sulle spalle che lo umiliava ogni giorno e nessun futuro davanti.

Krudd gli si era seduto accanto. Era quanto di più simile a un padre avesse mai avuto, dopo che quello vero lo aveva scacciato dal regno, diseredandolo.

Ma Lothar sapeva di meritarsi quell’onta. Perciò si alzò in piedi, prima che il suo servitore potesse  cercare di consolarlo per l’ennesima volta.

In quello stesso momento si udirono ovazioni provenienti dall’arena.

Dopo poco emerse un uomo che torreggiava sui suoi sgherri, affannati a detergergli il sudore.

Maschera nera che celava le sue fattezze, un fisico slanciato di muscoli solcati da cicatrici rigonfie che lasciavano immaginare mostruose ferite ottenute in chissà quali apocalittici combattimenti.

Veniva chiamato Legione, il più forte lottatore delle arene clandestine di Nemhea.

Su di lui circolavano le storie più incredibili. Che fosse un demone delle Desolazioni a ovest di Naggah; che avesse mille anni e provenisse dalle isole aldilà del mondo; che sotto la maschera celasse le fattezze di uno dei figli segreti dell’Imperatore.

La realtà era che si trattava di un guerriero formidabile, con una crudele attitudine ad infierire sui nemici in maniera sadica, cosa che faceva impazzire il pubblico.

Si sedette su una panca di fronte a Lothar. I suoi penetranti occhi neri lo scrutarono da oltre la maschera.

Lothar non abbassò lo sguardo.

Krudd si torceva le mani preoccupato.

- Tu – disse Legione con voce sepolcrale. – Tu sarai il prossimo.

Oltre il Deserto Proibito, Zandhia.

I gemelli erano nati lì, sotto una volta di velluto rosso.

Lord Zyzka-Na-Katon si aggrappava al pomo d’ambra del suo bastone di corno, arrancando nella sala d’ossidiana presidiata dalla sua guardia personale.

Scudi rettangolari, alti come un uomo, di solido metallo, scheggiato ma impenetrabile.

Il Signore delle Sabbie aveva imparato il valore del ferro fin da giovane, quando suo padre gli aveva insegnato che il mondo è un luogo crudele.

Ricordava il suo flagello, le lame sottili che infilzavano la schiena ogni volta che sbagliava uno dei compiti che gli venivano assegnati.

Percorse con lo sguardo i suoi uomini, gli occhi fieri dietro gli elmi istoriati. Oltre le loro fila disciplinate, una donna austera, dal volto tirato per la tensione. Non era più giovane come un tempo ma lui la trovava ancora estremamente affascinante.

Nyrka era la regina del suo harem, l’unica donna che aveva avuto il privilegio di mettere al mondo il suo erede.

In verità lei ne aveva messi al mondo due. Due gemelli.

Ma la legge del deserto parlava chiaro. Uno solo sarà l’erede. Gli altri dovranno morire.

La scelta era stata durissima. Lord Zyzka ricordava bene di averli stretti al petto appena nati, di aver sentito il loro odore, di aver ascoltato il loro pianto.

Non era riuscito a ucciderne uno. Aveva preferito consegnarlo all’oblio di una vita nascosta agli occhi degli altri uomini.

Ihsan sarebbe sopravvissuto. Avrebbe studiato i tomi d’acciaio delle macchine, avrebbe vegliato sui pozzi d’oliobruno e un giorno sarebbe seduto sul trono di Lord del Deserto.

Ahzar invece, fu consegnato al Custode delle Forge. Non sarebbe morto, ma avrebbe vissuto una vita di dolore e fatica al servizio delle macchine e, soprattutto, non avrebbe mai saputo nulla delle sue origini.

Lord Zyzka abbandonò con lo sguardo la sua Nyrka e continuò a camminare.

La tunica nera ricamata con elaborati disegni geometrici argentati, frusciava sul pavimento liscio e opaco. Un velo di sudore sul cranio stempiato. Una corona di capelli neri legati in una treccia che scendeva lungo la schiena.

Respirò l’aria calda che spirava dalla balconata.

Quando si affacciò al fianco delle bandiere con la vipera dalle fauci zannute, un’ovazione esplose centinaia di metri più in basso.

Dalla cima della gigantesca ziqqurat, il Lord salutò la sua gente. File e file sterminate di guerrieri che alzavano le loro lance all’unisono, una coreografia da brivido.

In lontananza i fumi delle forge offuscavano l’orizzonte.

L’epoca delle macchine stava per tornare.

- Sia gloria a Zandhia! – gridò Lord Zyzka.

Castel Baratro, Naggah.

La sala in cima alla torre era gelida.

Le pietre sapevano di tizzoni bruciati e cenere fredda.

Un sentore metallico filtrava dagli scuri alle finestrelle.

C’era una vasca di metallo al centro della stanza. Di fronte a essa stava un vecchio cieco e sdentato, dai radi capelli stopposi.

Sul volto sfigurato baluginava un sorriso insistente, che metteva inquietudine.

Gli abitanti di Naggah lo conoscevano come Vargr, lo stregone proveniente dalle Desolazioni Cineree, colui che aveva aiutato il principe Torg a salire al potere.

Tutti lo temevano.

Era un vecchio disgustoso, capace di far appassire una fanciulla col suo sguardo buio o di far fuggire terrorizzato il più valoroso dei guerrieri.

Soprattutto, nessuno sapeva di preciso chi fosse e quali fossero le sue reali intenzioni.

Torg, l’Usurpatore, aveva sfruttato i suoi poteri per uccidere suo fratello Kord, il legittimo sovrano di Naggah, gettandolo dalla finestra della sua camera, nell’abisso di settecento metri sotto la fortezza.

Ora era lì, in cima a quella torre dimenticata, scossa dal vento di una tempesta imminente.

Sua moglie Hena gli aveva sussurrato di non andare, di scacciare lo stregone, che sarebbe stata la loro vergogna e rovina.

Ma Torg desiderava troppo il potere per ascoltarla e rifiutò anche il suo abbraccio, consigliandole invece di restare con i bambini e non uscire dalle sue stanze per nessun motivo.

Vargr scrutava il liquido amniotico nella vasca con i suoi occhi cerulei, senza vita.

Qualcosa si muoveva là dentro, nella pozza di fusione.

Qualcosa che non sarebbe dovuto esistere.

Ma nelle Desolazioni Cineree da cui proveniva, accadevano cose che chiunque avrebbe giudicato impossibili.

Torg si avvicinava con passo cauto. Era terrorizzato ma non poteva mostrarsi timoroso.

Lui non era un vigliacco e non lo sarebbe mai stato.

Il vecchio gli sorrise con la bocca bavosa circondata di peli bianchi, duri come fil di ferro.

Masticava continuamente dei grani di pepe verde che prendeva da una saccoccia appesa alla sua tunica consunta.

Torg si affacciò verso la vasca.

Il temporale era iniziato. I fulmini si schiantavano sul tetto della torre, facendone tremare le mura.

Quello che stavano facendo era riprovevole. Aberrante. Empio.

Uccidere Kord, suo fratello, era stato necessario.

Aveva eliminato un burattino di Nemhea e lui si era ripreso ciò che gli spettava.

Ma lui era solo il terzo figlio.

C’era un altro fratello con cui Torg avrebbe dovuto fare i conti. Ben più temibile.

Hena e i suoi uomini odiavano Vargr e a ragione, ma era grazie a lui che la sua vendetta si stava compiendo.

Senza riuscire a proferire parola, con la risata chioccia dello stregone nelle orecchie e il rombo dei tuoni a intervallare i suoi passi, Torg scrutò nella vasca e vide un essere minaccioso crescere.

Quello che gli antichi ricordavano con terrore.

“Morphic” li chiamavano, creature mutanti.

La chiave perversa per il potere.

Torg Krannigan rise.

Una risata folle. Perché suo fratello Rogal, l’Imperatore, avrebbe presto conosciuto il prezzo della sconfitta.

Dietro di lui, all’ombra della tempesta, anche il vecchio Vargr ridacchiava sinistro.

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